Del mercato, oggi, mi interessa poco parlare. Si sono già sprecati fiumi di inchiostro e qualcuno pare sia diventato afono a furia di ciarle. Giusto per; non mi è dispiaciuto, l’ho trovato utile alla causa, ma con qualche imperfezione che da vecchie volpi non mi aspettavo. Soprattutto: cribbio, se fai uscire tre centrali dietro me ne vuoi portare almeno uno nuovo? Per sicurezza, mica altro. Ecco, questo pressappochismo difensivo mi ha stupito. Allo stesso modo un altro paio di errori; a centrocampo ne manca uno, e così pure davanti. Certo, c’è tempo per rimediare, ma finire una campagna acquisti con la testa già a gennaio non è proprio il massimo. Detto ciò vorrei ricordare un po’ a tutti che c’è una squadra da supportare, da aiutare e non da insultare a prescindere. Quindi oggi Vi parlerò di interismo. O, almeno, di cosa intendo io per interismo. E i coltelli, le asce, le lance, le pistole ed anche i cannoni li seppellirei; che non abbiamo bisogno di quel che ho letto nell’ultimo mese.

Interismo è una sorta di virus importato dalla Svizzera il 9 marzo 1908. I sintomi? ti colora di nerazzurro. Alcuni narrano che la scelta dell’abbinamento cromatico fu determinata dal fatto che Giorgio Muggiani, primo vero portatore sano, pittore, aveva con sé una tavolozza e su di essa, per l’appunto, soltanto i due colori succitati. Poi c’è chi racconta che l’azzurro venne appositamente scelto in contrapposizione al rosso dell’altra squadra di Milano. Comunque sia andata, nerazzurro era e nerazzurro è rimasto. L’interismo non lo scegli; ti prende, ti rapisce, ti cattura, ti invade per tutta la vita. Non lo scegli; è lui che sceglie te. Questo è un dato di fatto. Testato sulla mia pelle.

Io, malato di interismo, nato in una famiglia milanista, juventina, con qualche spruzzo di napoletanità. Ma interista. Da sempre. Non è semplice convivere col virus; può farti cambiare umore senza che chi ti sta accanto capisca cosa stia succedendo. Puoi ridere o piangere nel corso di 90 minuti perché l’Inter è pazza, al di là del ritornello e dei luoghi comuni; riesce nell’impresa, unica nel suo genere, di risorgere dalle proprie ceneri come l’Araba Fenice. Quando tutto sembra perduto ti regala momenti di delirio sportivo, quando sei tranquillo e serafico ti fa sprofondare nell’abisso della depressione. Sempre sportiva, beninteso.

L’interismo è unico ed inimitabile; hanno provato a copiarci, in ogni parte del mondo. Ma è roba nostra, gli altri sono goffi tentativi, mal riusciti, di emulazione. Lontani anni luce dall’originale. Essere nerazzurri è un modo di vita, una fede che non puoi spiegare con semplici parole. Chi non è come te non capisce. È un modo di essere, così diverso dagli altri credo calcistici. Se hai bisogno di convincerti di essere interista, allora non sarai mai colpito dal virus; tutt’al più potrai simpatizzare. Lui arriva all’improvviso, senza se e senza ma, senza compromessi. L’interismo ti porta a contestare e gioire nel corso di un attimo, perché non sai mai cosa può succedere da un momento all’altro mentre quelle maglie, quei colori, sono in campo. Forse vinciamo meno di altri, ma volete mettere la libidine. E quando vinciamo lo facciamo alla grande. Così come quando cadiamo. Del resto, nonostante molti abbiano avuto periodi storici fortunati e ricchi di soddisfazioni, nell’immaginario collettivo mondiale resta la Grande Inter di Angelo Moratti come esempio di gruppo vincente.

È un dato di fatto incontestabile, non una mera invenzione. Eppure, in quegli anni, altre compagini italiche e non si affermavano alla ribalta internazionale. Ma la chimera, il desiderata, il mito, siamo sempre stati noi. E non è un caso se molti, moltissimi tifosi, in Sud America sono stati contagiati a loro volta dal virus. Per la cronaca stanno tutti bene. Chi gioca con l’Inter deve entrare in sintonia col mondo unico e totalizzante che la circonda. Non potrai appartenere a questi colori se, per prima cosa, non li senti addosso come una seconda pelle. Facchetti, Mazzola, Boninsegna tanto per andare indietro di qualche decennio, senza arrivare al Meazza degli anni trenta passando per i Nyers o gli Skoglund degli anni cinquanta. E tanti, tantissimi altri che non basterebbero pagine e pagine per elencarli, come Kalle, Lothar, Andy. Tutti contagiati. Ancora oggi, quando parlano di Inter, vedi spuntare un bagliore, un luccichio in fondo ai loro occhi. Il mago Herrera, Invernizzi, Bersellini, perfino Trapattoni…già, il Giovanni nazionale il virus lo ha contratto. Io ero lì quando i nostri colori furono protagonisti di quella splendida ed unica cavalcata. E vedevo, lo vedevo…con la sua tuta, lui che aveva vestito la maglia dei cugini e che aveva allenato per anni la rivale di sempre.

Il professionale e professionista Trapattoni. Lui era Appiano Gentile, la Pinetina. Lui si era ammalato. Di Inter. Potrò sembrare retorico, se volete un tantino demagogo. Pensatelo pure; tanto, se non siete interisti, non capite. L’interismo è Saverio, il Cuchu, The Wall. I nostri eroi. Le nostre bandiere. È lui, José Mario dos Santos Mourinho Felix da Setubal, noto al mondo intero col nomignolo di Special One. Mou e le manette, Mou e la chiamata al popolo che seguiva il suo condottiero passo dopo passo, Mou e le sue uscite, mai banali, mai noiose. Mou ed un altro pezzo di storia del calcio scritta soltanto da noi, quel triplete che ci portiamo nel cuore e che resterà indelebile. Potrei andare avanti per ore a raccontare l’interismo. Che non ha cure né rimedi. Non esiste medico al mondo capace di debellare quel virus che hai dentro, che ti provoca gioie immense o dolori insopportabili.

Ecco; io ho quel virus. E lo porto con orgoglio. Rispettando sempre chi non la pensa come me, è un problema loro non mio. Fa parte della mia vita, della mia quotidianità, della mia essenza. Le facce, i volti, le voci passano; resta la maglia, resta l’Inter. Oltre, ma molto oltre, i mercati e le beghe da cortile. Amatela, sempre! Buona domenica a Voi.

Sezione: Editoriale / Data: Dom 03 settembre 2017 alle 00:00
Autore: Gabriele Borzillo / Twitter: @GBorzillo
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