Correva l’agosto del 2013: dopo una lunga lotteria di calci di rigore decisa dalla trasformazione di Juan Pablo Carrizo e dall’errore di Mauricio Isla, l’Inter di Walter Mazzarri superava in quel di Miami la Juventus di Antonio Conte in quella che all’epoca valeva come finalina per evitare l’ultimo posto in classifica nella prima edizione della International Champions Cup. Un cucchiaio di legno che sostanzialmente non risultò per nulla indigesto all’allora tecnico bianconero, nonostante la sua congenita indole che lo porta a voler vincere anche una mano di scopone scientifico con gli amici. Al punto tale che liquidò l’ultimo posto nel torneo con una battuta tanto semplice quanto efficace, che suonava pressappoco così: “Quando mi verrà chiesto di preparare la squadra per vincere la International Champions Cup, allora lo farò”.
Conte chiuse quella stagione col terzo scudetto di fila conquistato alla guida della Juve, con tanto di muro dei 100 punti sfondato, ma anche con la cocente delusione dell’eliminazione al primo turno di Champions League complice la zampata di Wesley Sneijder nella neve di Istanbul, alla quale si è poi aggiunta quella del mancato raggiungimento della finale di Europa League da disputarsi tra le mura amiche dell’allora Juventus Stadium. Una Juve che Conte avrebbe voluto vedere primeggiare in Europa come in Italia, ma che all’epoca non gli sembrava ancora pronta, al punto tale da scatenare le ormai celeberrime battute su ristoranti e conti, segnali di frizioni con la dirigenza culminate col clamoroso, ma secondo alcuni nemmeno troppo, divorzio a ritiro estivo già iniziato. Sono passati sei anni, Conte è transitato dalla Nazionale italiana e poi dal Chelsea, e alla fine, dopo un periodo di ricarica, eccolo dire sì alla sfida più grande, quella di allenare l’Inter.
A distanza di sei anni, riecco Antonio Conte alle prese con la International Champions Cup. E soprattutto, alle prese con un primo risultato sicuramente non positivo, dopo la prestazione comunque confortante con il Lugano. Anche se è difficile davvero commentare con toni da cronaca vera una partita di calcio di luglio, seppur di prestigio come quella col Manchester United. Era molto difficile, per non dire improbo, pronosticare in fin dei conti un esito diverso: al di là dei ‘soloni’ della statistica che sciorinano numeri ignorando forse che, dei tanti metodi che esistono per analizzare una partita, si tratta presumibilmente del più freddo e meno efficace ed efficiente, tutto lasciava presagire un esito favorevole alla formazione di Ole Gunnar Solskjaer.
Red Devils che pure senza quel Romelu Lukaku che continua a guardare con occhi languidi i colori nerazzurri, si è presentata in condizione nettamente migliore rispetto ai nerazzurri, con carichi di lavoro ben differenti alle spalle visto che la Premier è prossima al via, e soprattutto se non con la formazione titolare poco ci mancava, mentre quello interista è un edificio ancora in via di costruzione. Alla fine la partita si è chiusa con una vittoria di misura per gli inglesi, anche se lo scarto avrebbe legittimamente potuto essere più ampio, visto che l’Inter scendeva in campo praticamente mutilata per via di attacco raffazzonato che risultava fin troppo facile da controllare per i più esperti e qualitativi difensori in rosso, nonostante la buona volontà soprattutto di Sebastiano Esposito. Tutto questo lasciando perdere anche il clima da ‘pentola a pressione’ che attanagliava Singapore, che valeva sì per ambedue le squadre ma magari su chi aveva già gambe più pesanti ha contribuito ad aumentare le difficoltà anche nel rimanere lucidi in campo, chiedere per informazioni a Milan Skriniar.
O forse no, forse è meglio non lasciar perdere, almeno fino a un certo punto: perché lo stesso mister Antonio Conte, nella conferenza stampa successiva alla partita, ha fatto capire quanto possano essere disturbanti le condizioni nelle quali l’Inter si sta ritrovando a dover preparare questa nuova stagione. Lui descritto in maniera un po’ imprudente come un uomo dal volto poco felice, senza pensare che l’espressione corrucciata fosse dettata dalla reazione a caldo dopo la sconfitta, lui che una volta in campo sente all’estremo ogni partita al punto da infamare in italiano contro uno degli assistenti dell’arbitro dall’impronunciabile nome di sabato pomeriggio reo di non aver assegnato un calcio d’angolo alla sua squadra, che però riesce anche a riprendere il sorriso. Non prima, però, di avere espresso nuovamente alcuni concetti e facendolo alla sua maniera, schietta e senza possibilità di interpretazione. Cose per le quali una volta veniva dipinto come un condottiero e ora si becca solo epiteti negativi da parte di tifosi e addetti ai lavori per i quali digerire l’idea di Conte all’Inter è più difficile che mandar giù un tordo intero.
Ha parlato chiaro, Conte, come sempre: ha detto che le condizioni attuali, meteorologiche e di calendario, non sono quelle ideali per un gruppo che deve ancora lavorare tantissimo per assimilare i suoi concetti, si ritrova a doverlo fare ancora a ranghi incompleti e al ritmo di una partita ogni tre giorni, spostamenti inclusi, con la conseguenza di dover usare anche i test match non come prova dell’esito del lavoro ma come parte integrante dello stesso; ha lamentato il ritardo sul mercato, non tanto per i giocatori in entrata quanto e soprattutto per le uscite che tardano ad arrivare e che ingolfano il traffico intorno ad Appiano Gentile (riserve sul mercato che espresse, ricordiamo per chi ha la memoria corta, anche un certo José Mourinho in una certa estate, quella del 2009). E infine, ha parlato di pressione: una pressione che nell’accezione del tecnico salentino è da vedersi come pressione positiva e che vuole che sia estesa non solo alla sua figura, ma anche a tutti coloro che nell’ambiente Inter lavorano, perché soltanto così, ipse dixit, si potranno raggiungere risultati importanti nel futuro.
Conte sa benissimo che la decisione di accettare la sfida Inter ha portato inevitabilmente a caricare da ogni dove la sua figura di aspettative, è stata anzi la prima cosa che ha dichiarato e questo ancor prima che venisse ufficializzato il suo accordo col club nerazzurro. E Conte sa altrettanto bene che lavorare in questo microcosmo tutto particolare quale è l’Inter comporta il dover sopportare pressioni inusitate, e allora tanto vale giocare subito a carte scoperte e chiarire di non essere disposto a reggere da solo tutto questo peso, ma anzi tutte le componenti devono sobbarcarsi la loro dose. Lo ha fatto coi giocatori, specie con Ivan Perisic per il quale forse un po’ troppo repentinamente si è parlato di bocciatura ma, risentendo bene tutte le parole della conferenza stampa, dove comunque ha elogiato l’impegno del croato pur ritenendo non idonei alle sue volontà i risultati offerti. L’allievo si applica ma più che non essere intelligente non produce, insomma, e quindi sta nelle sue mani il prosieguo del suo cammino interista.
E infine, lo ha fatto con la dirigenza, al fine di pungolarli a trovare la quadra di determinate situazioni perché logicamente si aspettava di essere un po’ più avanti nel lavoro arrivati ormai a fine luglio e anche perché ‘chi ha tempo non aspetti tempo’. E senza star lì a dar troppa corda a chi dipinge (auspica?) scenari apocalittici, appare ovvio che Conte adesso vorrebbe spingere sull’acceleratore e cominciare ad avere il gruppo da lui desiderato quanto prima. Chi ha tempo non aspetti tempo e perdere tempo, e di conseguenza anche terreno come avvenuto all’inizio della scorsa stagione sarebbe davvero un peccato mortale. Tutta l’Inter è sotto pressione, ‘under pressure’, e magari lo sarà ancora di più quando, prima della sfida contro la Juve, ci sarà il summit con la famiglia Zhang a Nanchino: Antonio Conte fa volentieri il front-man di questa Inter in stile Freddie Mercury, ma ora vuole che al suo fianco ci sia almeno un David Bowie
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Autore: Christian Liotta / Twitter: @ChriLiotta396A
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