Passi un pomeriggio a costruire un castello di carte, magari sfidando i limiti naturali dovuti alla tua scarsa capacità; sul più bello, quando ti accingi a mettere le ultime tre carte a capanna, per dare un tetto alla tua costruzione e farne un piccolo capolavoro da immortalare, la finestra – rimasta aperta per sbadataggine – lascia entrare proprio quell’alito di vento che basta a buttarlo tutto giù per terra. Quanto può essere frustrante?
Immaginiamo, però, che questo castello sia un’opera che si trascina da mesi, frutto di un impegno saltuario sì, ma pur sempre lungo nel tempo, e che mai come questa volta il suo compimento appaia prossimo a un esito felice. L’orgoglio trabocca, l’opera è quasi compiuta. A buttarla giù sul più bello, però, non è il vento, ma qualcuno che entra nella stanza e, più o meno deliberatamente, manda all’aria l’intero castello. Per riprovarci, per metterti di buona lena a costruirne un altro che assomigli il più possibile al precedente, servirà una forza di volontà non comune e una lucidità che, in certi momenti, viene a mancare anche al migliore.
Questa Inter ha certamente le sue colpe e le sue mancanze, accumulatesi soprattutto negli infausti mesi invernali, quando là davanti la palla in porta non voleva saperne di entrare e la risicata rosa che dirigenza e società hanno messo a disposizione di Spalletti ha manifestato tutte le sue lacune, complice anche l’affastellarsi di turni settimanali che la squadra nerazzurra non ha saputo reggere. Ciò nonostante, però, l’Inter aveva messo in piedi un percorso credibile, un castello di carte fragile e insieme bello.
L’infausta prestazione di Orsato, la sciagurata e confusionaria gestione del match più importante dell’anno da parte di chi si presumeva essere il miglior arbitro in circolazione, ha buttato giù il castello di carte, e poche ciance sul fatto che l’Inter abbia molto da recriminare a se stessa. È vero, il percorso non è stato solido, ha delle sbavature, senza le quali si dovrebbe parlare di miracolo. È ancor più vero, poi, che l’Inter contro la Juve è stata tradita anche da due fattori di grande continuità in quest’annata come Spalletti e Handanovic, mentre i tanto discontinui croati hanno provato a trascinarla nell’inedita veste di condottieri.
Il castello, però, era in piedi, ed è stato buttato giù da qualcun altro. Serve tanta pazienza per rimetterlo insieme in fretta e furia nelle ultime giornate, sperando che altrove perdano punti per strada. Serve forza mentale. L’Inter, anche questa Inter senz’altro più credibile rispetto a quella degli anni passati, dovrà insomma provare a ripartire proprio da quella qualità che ha mostrato di non possedere e la cui assenza le è già costata gravi passi falsi. Dovrà farlo, poi, con un paio di squalifiche su un campo a lei non amico, contro una società che tradizionalmente non regala nulla a questi colori, infine contro due uomini appena arrivati su quella panchina che – guarda un po’ il destino – evocano da queste parti ricordi tutt’altro che piacevoli.
Eliminando la cabala, i corsi e i ricorsi e i tratti somatici per noi poco rassicuranti di Tudor e Iuliano, questa è davvero un’inedita chiamata alle armi. Una squadra ormai ben più avvezza a giocarsi le stagioni punto a punto come il Napoli, dopo l’orrido spettacolo di sabato sera, è miseramente crollata a Firenze. Figurarsi cosa può potenzialmente accadere all’Inter, stralunata e incostante com’è, capace di buttare tutta se stessa con coraggio e eroismo dentro una partita che è stata resa a lei ostile e poi di perdersi contro la più improbabile delle outsider. L’Udinese, poi, ha un margine di soli tre punti sul Chievo terzultimo; le serviva una scossa, e la proprietà ha quantomeno tentato in questa direzione con l’esonero di Oddo e la chiamata di Tudor. L’opportunità di aumentare questo cuscinetto di tranquillità è ghiotta per i friulani, dal momento che Chievo e Crotone saranno impegnate nello scontro diretto, il Cagliari deve vedersela con la Roma e solo la Spal ha un impegno apparentemente facile, ma poco rassicurante, con l’infido Benevento.
Poco deve contare, però, la carica degli avversari, e poco dovrà contare anche il precedente del girone d’andata, quando i friulani hanno gettato per primi i nostri eroi nella troppo lunga depressione invernale. Le gare di fine stagione sono spesso mere esibizioni con l’esito già scritto in partenza, ma stavolta il caso ha regalato all’Italia un campionato quanto mai incerto per quasi tutti i traguardi: Cagliari e Atalanta non saranno sparring partner delle romane, dunque l’Inter ha il dovere di rimettersi in piedi. Aggiungerei che lo avrebbe comunque, anche se l’obiettivo (e così non è) fosse ormai una chimera: sarebbe in dovere di farlo verso se stessa, verso un anno che, comunque, può aver regalato a questa squadra qualche gemma in più e qualche leader inedito, come quello Skriniar che nell’intervallo del derby d’Italia esortava alla calma i compagni battendo le mani e imponendole sulla loro fronte, neanche fosse Zanetti o il Papa buono.
Deve farlo per se stessa, dicevamo, ché già girano le consuete voci di dismissione generale in caso di quinto posto, con l’Inter che a momenti sembrerebbe in procinto di vendere un po’ tutti e di lanciarsi all’assalto del prossimo campionato con la coppia Martinez-Colidio. Deve farlo per chi ci prova da anni, come Icardi e lo stesso Handanovic e per chi, come Brozovic, ha iniziato a crederci da poco, ma con una forza notevole. Deve dimostrare di non aver buttato ancora tempo, denaro ed energie, e deve suggerire a tutti, anche a chi decide al di là dell’oceano, che smantellare sarebbe un errore clamoroso, e che si deve ripartire da Spalletti e dai suoi fedelissimi. Soprattutto, deve tanto a quel milione e passa di presenze allo stadio che hanno impreziosito la stagione nerazzurra come fanno i gioielli addosso a una bella donna.
È la stessa gara di sabato, in qualche modo, a mostrare che talvolta la prestazione conta al di là del risultato, che ci sono modi e modi di perdere: dovesse fallire la caccia al quarto posto, che almeno l’Inter esca da queste tre gare con un bottino di punti e certezze che le consentano di recriminare e ritrovarsi unita intorno a un’idea comune, piuttosto che costringere noi tutti ad assistere all’ennesimo rompete le righe quando il traguardo sembra ormai irraggiungibile. Che poi, detta sinceramente, a scrivere ciò mi viene il magone e mi prude tutto. Perché la sconfitta, per quanto nobile possa essere, non è mai la vittoria, e il quinto posto è quanto di più lontano al mondo esista dal quarto. Cosa volete farci: ho visto tirare su un bel castello di carte, fragile quanto volete ma bello, e ho visto anche com’è stato buttato giù. Ecco perché, se tutto ciò finisse nell’incuria tipica di chi non ci prova più ché tanto non vale la pena, mi sentirei tradito.
Autore: Antonello Mastronardi / Twitter: @f_antomas
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