“Bisogna metterci la faccia”, “Nessuno ci mette la faccia”, “Spalletti è troppo solo, costretto a metterci la faccia in conferenza”, “L’Inter, una storia già vista: da Mourinho in poi, anzi no, dal primo Mancini, soltanto l’allenatore ci mette la faccia, e finisce inevitabilmente per perderla”. Poi arrivano due tre giornate insolite, una ventata d’aria fresca, forse dettata dalla necessità di rispondere in modo diverso a problemi d’annata, che persistono proprio in quanto affrontati finora con un approccio di volta in volta uguale a se stesso. Nelle ultime 48 ore, in casa Inter, ha parlato chiunque, e non si tratta di figure di secondo piano, di quelle che, in qualche modo, quando aprono bocca hanno l’effetto del vento sui palazzi. Nell'ordine: Spalletti, Sabatini, Antonello, vale a dire tecnico e CEO di FC Internazionale insieme a colui che l’Inter la guarda dall’altro, mentre si barcamena sul sottile equilibrio tra i nerazzurri e il Jiangsu che è ancora lontano dall’essere delineato con contorni chiari e misure comprensibili.

Siamo dunque davanti a una svolta? È iniziata l’epoca della chiarezza, in cui la dirigenza scende in campo in prima persona e ci mette la faccia? Forse. Qualcosa, magari, è cambiato, e senz’altro molto altro in futuro cambierà, dato che la proprietà nerazzurra è qui da poco più di un anno e mezzo e i risultati raccolti finora non potranno che accelerare ogni progetto di rinnovamento già immaginato da Suning nel giugno 2016, e poi accantonato o rallentato chissà perché. Non si sta parlando di pesanti interventi economici, ché quello è un altro capitolo. C’è però una bomba, messa lì ogni estate, che scoppia inesorabilmente alla prima sconfitta, e intorno resta solo devastazione, con la stagione in macerie all’alba di marzo. Onde evitare il refrain, hanno sentito il bisogno di dir la propria ben tre esponenti di spicco dell’Inter (se si amplia a sufficienza il confine delle cose nerazzurre così da includere Walter Sabatini, anche detto ‘L’uomo di Suning’, con un’espressione degna di una spy story asiatica, più che della gestione sportiva di un club).

Al di là dell’intervento, per così dire, programmatico del CEO Antonello, che ha speso parole pienamente coerenti coi suoi compiti aziendali e il suo curriculum da tecnico, ciò che colpisce è l’urgenza, pressoché identica, che Walter Sabatini e Luciano Spalletti hanno avvertito nel voler prendersi in pieno la responsabilità e la colpa del crollo di questi mesi, quasi a invertire drasticamente la tendenza di una società che, per un suo malcostume, è restia a individuare in sé un problema da risolvere per tornare quanto prima a veder la luce.

È forse questa la via giusta? L’approccio di Spalletti è certo apprezzabile, diretto, senz’altro sincero. Il tecnico di Certaldo aveva e ha preferenze sul mercato, pupilli e desideri, che in qualche caso sono stati esauditi (Valero e Vecino, su tutti), troppo spesso son rimasti frustrati. Eppure, pochi come il buon Luciano (forse i soli Allegri e Sarri, che guarda caso son spesso ritenuti i più bravi d’Italia) sono allenatori nel senso tradizionale del termine, orientati per propria natura a fare calcio col materiale che hanno, senza troppe velleità manageriali. In questo senso, Spalletti ha tutte le ragioni del mondo a ritenersi il primo responsabile dello sgretolamento di una squadra che era capace di andare oltre i limiti di un gioco monocorde, fino a giungere con l’inverno alla più completa incapacità di riproporre se stessa con ordine, orgoglio e determinazione.

Ha ragione anche Walter Sabatini a ricordare che le squadre le fanno i giocatori, e i giocatori li comprano i direttori sportivi, e gli allenatori hanno dal canto loro il compito di metter questi in campo facendo il minor danno possibile. Se la squadra non va, ha sbagliato Ausilio, ha sbagliato Sabatini, starà sbagliando Spalletti: d’altra parte, son loro che lavorano a diretto contatto con la squadra, e sono dunque da attribuire a loro quegli errori che più immediatamente ne influenzano in negativo il rendimento. Complimenti: fosse sempre così automatica l’assunzione di responsabilità da parte di chi lavora, il mondo sarebbe un posto più bello, anche e soprattutto perché l’Inter avrebbe un paio di scudetti in più.

Sperando che il pensiero di Ausilio sia in qualche modo implicito già nelle parole del suo diretto superiore, ché altrimenti il suo silenzio in merito, proprio mentre parla chiunque, sarebbe assordante, non bisogna però guardare a questa improvvisa corsa all’ammissione di colpa come a un qualcosa di strettamente positivo. Da troppi anni, quando all’Inter scoppia il caos, ci accontentiamo di esporre alla gogna mediatica il primo che passa, il più antipatico o il meno chiaro davanti alle telecamere. La città brucia? Impicchiamo in piazza il primo passante che si stia accendendo la sigaretta che ha tra le labbra, e poi via a ricostruire ciò che poi verrà arso dal prossimo incendio.

All’appello manca un nucleo di giocatori che da anni si distingue per sfaldarsi in assurde questioni da bar al primo stop casalingo: andrebbe corretto nei suoi elementi peggiori, se proprio non si riesce a convincerli che il professionismo è un’altra roba. Quanto alla proprietà, la sua progettualità merita certamente tutto il rispetto che sono in grado di esprimere i non ignoranti, coloro che non si affannano a chiedere investimenti da centinaia di milioni dalla propria postazione PC che, peraltro, dalle parti di Nanchino non parrebbe essere granché influente. Anche qui, però, la proprietà manca e, nella fattispecie, manca di chiarezza e calore.

Nella generale gara a chi ha più colpe, sarebbe forse risolutivo un intervento del giovane Zhang, coi modi e i tempi più consoni alla sua cultura sino-americana, ben poco intonata col nostro amore di testa, di cuore e di pancia. Mettiamola così, gli varrebbe anche qualche personalissimo punto, nella speranza che prima o poi il figlio della padrone sottragga con destrezza la poltrona da presidente a quel Thohir di cui fatico a ricordare i lineamenti. Steven vive ormai da più di un anno a Milano, ha avuto modo e occasione per capire come ragioniamo noialtri. Acceleri la sua fusione culturale, perché da questo rispetto reciproco passa molto più di quel che sembra. Magari ci sarà ancora bisogno di tempo per uscire dal guado del FFP e perché sia un successo anche qui quel nobilissimo autofinanziamento che percorrono tutti i più grandi d’Europa; magari Suning ha sbagliato non poco nei suoi primi mesi, e un paio d’errori hanno fattezze umane, gli scarpini ai piedi e giocano uno a Londra e l’altro nel suo Santos. Parli in tal modo anche lui, però, e sarà un bel giorno per tutti. Certe cose, a non dirle, sembrano più brutte di quel che sono.

Sezione: Editoriale / Data: Ven 23 febbraio 2018 alle 00:00
Autore: Antonello Mastronardi / Twitter: @f_antomas
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