Roberto Boninsegna, intervistato dal Corriere dello Sport, racconta la sua carriera e commenta il momento attuale anche dell'Inter.
Come cominciò a giocare sul serio?
"Un giorno al campetto parrocchiale venne un distinto signore che, dopo avermi visto giocare, mi chiese se mi sarebbe interessato fare un provino con l’Inter. Io, da tifoso nerazzurro, pensai che mi stesse prendendo in giro: certo che mi interessava. Gli diedi l’indirizzo di casa e gli dissi di parlare con mio padre. Lo fece. Andai a due provini. Mi presero, per due anni feci la spola tra Milano e Mantova. Avevo tredici anni. Poi mi dissero che, siccome andavo bene, volevano che mi fermassi a risiedere in foresteria. Ci fu un dramma, in famiglia. Ero figlio unico, ero un bambino. Mia madre non era d’accordo. Ma alla fine, tra le lacrime, cedette. Ma anche io piangevo spesso, mi pesava la solitudine. E allora fuggivo, ogni tanto fuggivo. Vivevo in una stanza con altri ragazzi, c’era anche Bedin tra loro. Pensi che io avrei dovuto esordire in serie A in quella partita tra la Juve di Sivori e i ragazzi della Primavera che l’Inter, per protesta, mandò a giocare invece dei titolari. Ma quel giorno, mentre perdevamo nove a uno e Mazzola segnava il primo gol vero della sua vita, io stavo guardando la campagna, sul treno che mi riportava, fuggiasco, a casa dai miei».
Lei non ebbe un buon rapporto con Helenio Herrera?
"Avevamo vinto il torneo di Viareggio, eravamo un gruppo di ragazzi molto forti, c’erano Mazzola e Petroni. Loro avevano un anno in più e furono chiamati in prima squadra. Herrera volle che io invece andassi in giro per l’Italia. Fui mandato a Prato e poi a Potenza. Dove, peraltro, sfiorammo la serie A. Ero in coppia con un bel giocatore, Bercellino II, che era in prestito dalla Juve. Lui fece diciotto gol e io dieci. Fu un anno bello, anche se non vedemmo una lira. Tornai a Milano con un bel mazzetto di cambiali e con il naso sfasciato da una gomitata durante una partita con il Trani. Il naso da pugile è ancora qui, invece delle cambiali Allodi mi disse che ci avrebbe pensato lui. Non ne ebbi più notizia".
Comunque non la fecero tornare a Milano neanche questa volta, neanche dopo gli ottimi risultati di Potenza.
"No, mi mandarono a Varese. Giocavo ala sinistra perché il centravanti era Combin. Non eravamo male, ma fu un campionato sfortunato. Con noi giocavano Ossola e Maroso, i figli di due delle vittime dell’incidente di Superga. Ma finito quel torneo, siamo nel 1966, continuò il mio esilio da Milano, stavolta a Cagliari. Sembrava che l’Inter di Herrera, che in quel periodo vinceva tutto, proprio non mi volesse".
Arrivò a Milano e trovò un HH, ma non era Helenio. Era Heriberto, del quale molti suoi colleghi non mi hanno parlato in termini esaltanti…
"Io non capivo quello che diceva e all’inizio non ingranai. Poi decisi, tra me e me, che dovevo giocare come sapevo. Da allora è stata una cavalcata bellissima, ho vinto tre volte, non due come dicono le statistiche ufficiali, la classifica dei cannonieri. Ho segnato 171 gol, ci siamo aggiudicati due scudetti e siamo arrivati alla finale di Coppa dei Campioni che perdemmo con l’Ajax di Cruyff".
Ci fu il famoso episodio della lattina di Coca Cola che la colpì durante la partita con il Borussia...
"Ma lo sa che ancora oggi molti credono che io abbia fatto la sceneggiata? Altroché, quella lattina rossa mi arrivò in testa, bella piena, e io svenni. Volevo giocare ma il dottor Quarenghi mi disse che, con un bernoccolo come quello che avevo, era meglio evitare. Ancora oggi a Mönchengladbach ci sono dei club contro di me. Quando rigiocammo la partita io ricevetti molte lettere con la svastica… Ma per fortuna sono ancora qui".
Poi all’Inter ritornò Herrera, quello vero.
"Sì, il Presidente Fraizzoli era tutto preoccupato che io potessi prendere cappello per questo. Lo tranquillizzai. Quando HH arrivò mi disse che lui, anni prima, mi avrebbe voluto tenere ma che era stato Allodi a volere che andassi in giro per l’Italia. Quando trovai poi in nazionale Allodi, lui mi disse il contrario, come sempre accade in questi casi. Io ci misi una pietra sopra".
Che rapporto ebbe con Mazzola?
"Siamo cresciuti insieme nelle giovanili. Durante una trasferta della Nazionale, in Germania Est, io, che allora giocavo nel Cagliari, gli dissi che mi sarebbe piaciuto tornare all’Inter. Credo che lui si adoperò perché questo accadesse. Era un grande trequartista, per me il migliore del mondo dopo Cruyff. Era anche capace di finalizzare in rete e gli piaceva molto farlo. Con Sandro il rapporto si è incrinato negli ultimi anni in cui abbiamo giocato. Lui voleva fare il regista e io pensavo che non fosse quello il suo ruolo. Discutemmo di questo. La mia sincerità mi costò il trasferimento dall’Inter, ancora una volta. Ero a Forte dei Marmi, a pranzo, d’estate. Mi chiamò Fraizzoli e mi disse che dovevo andare alla Juventus. “Ci vada lei, alla Juve”, gli risposi. E aggiunse, come per giustificarsi, che in società si pensava che fosse opportuno acquistare un centravanti di movimento e non un regista. Io capii che Sandro aveva avuto un ruolo e mi dispiacque. Ma non tutto il male venne per nuocere".
C’è oggi un centravanti italiano che le assomiglia?
"Io ero un classico centravanti d’area, che fornisce alla squadra riferimento e profondità. Che finalizza molto. Mi erano simili Vieri, Casiraghi. Oggi Icardi. E poi mi piace Pavoletti. Non lo conoscevo. Secondo me è un talento. Il problema è che i ragazzi italiani giocano poco e arrivano in prima squadra tardi".
Autore: Alessandro Cavasinni / Twitter: @Alex_Cavasinni
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