Se è vero, come dice Mourinho, che per un allenatore come per un calciatore non allenare o giocare nel Real Madrid costituisce un “buco” nella propria carriera, così, per un giornalista sportivo, non entrare almeno una volta nei quattro-stadi-quattro più famosi del mondo è un “buco” professionale. Io non sono mai entrato al Maracanà di Rio e penso che staccherò la bolletta di questa vita senza entrarci. Mercoledì 14 novembre ’73 ero invece a Wembley per un’amichevole tra azzurri ed inglesi e siccome volevo guadagnare tempo per l’uscita non ho visto il gol di Capello a 4 minuti dal termine per quella che è stata la prima vittoria italiana fuori casa. Il mister era zio Uccio Valcareggi,famoso per il suo “stellone”. Una classica inchiappettata all’italiana. Finalmente il Nou Camp (e non Camp Nou). Da due settimane ero a Barcellona per Rai GR1 e per quanto esaltanti i successi su Argentina e Brasile aver fatto giocare queste classiche del calcio mondiale nello stadio Sarrià, appena 45.000 posti, era un po’ come andare a cena da Gualtiero Marchesi e ordinare minestrina e verdura cotta. Spalti gremiti meno della metà della capienza, nove di sera di una giornata caldissima ma era importante chiedere alla Polonia il passaporto per la finale. Missione compiuta con i due visti di Paolo Rossi ed entrare, 3 giorni dopo, al Santiago Bernabeu,quarto degli stadi per non avere il “buco” in carriera. Ad essere sincero al Bernabeu c’ero già stato ma non con gli azzurri bensì per i nerazzurri. Primavera del ’67 quando contro il Real occorreva difendere, nei quarti di Coppa Campion, lo striminzito 1 a 0 dell’andata di San Siro. Fu un 2 a 0 da orgasmo, sublimato dalla “muleta” che un solitario invasore di campo fece all’arbitro della gara. Con il suo gesto aveva voluto mimare che il Real era stato “matato”. La “muleta” è quel drappo che il torero usa sul finire della corrida. Sostituisce la cappa iniziale e il matador la muove davanti agli occhi del toro già sfinito e ferito dalle banderillas facendola roteare sul proprio fianco dove passano rasenti le corna dell’animale. E’ l’agonia della povera bestia. Ma il nuovo ingresso al Bernabeu quella domenica 11 luglio aveva un altro sapore.
Eravamo vicini al terzo titolo mondiale, potevamo raggiungere il Brasile, con il quale ci eravamo giocata la Rimet nel ’70 all’Azteca. La sera precedente nel fetido hotel di Madrid, reperito a malapena perché la pur ottima organizzazione Rai non aveva ipotizzato che saremmo arrivati in finale, avevo preparato la valigia fino a tarda notte convinto di dormire tutta la mattinata dove non erano previsti impegni. Come non detto: telefonata alle 7 per andare in uno sconosciuto aereoporto madrileno dove sarebbe arrivato il presidente Sandro Pertini. Solo 4 giornalisti accreditati, Giampiero Galeazzi per la tv, Furio Focolari per il GR3, Ezio Luzzi, oltre me. L’incontro tra il Presidente della Repubblica Italiana e il Re Juan Carlos fu quello tra un padre e il proprio figlio. Prima l’abbraccio poi una carezza tanto che il re diventò rosso in viso. Pertini si concesse ai microfoni dicendo a Galeazzi, che gli porgeva il microfono “cos’è questo aspersorio”. Poi sul finire delle domande quella che fece inalberare Pertini (uso inalberare perché non so se qui si può usare incazzare). “ Presidente – chiese Focolari – questa sera gli spagnoli tiferanno Italia perché lei, l’altro giorno a Parigi, ha sostenuto l’ingresso della Spagna nell’Unione Europea”. La risposta fu prima un urlo poi la sottolineatura del diritto spagnolo ad entrare tra gli allora 7 paesi europei. In serata gli spagnoli, allo stadio, per strada, nei bar tiferanno Italia. L’ingresso al Bernabeu, quella volta, fu più emozionante. Finalmente riuscii a vedere, gustare lo stadio. Nel ’67 avevo paura di una eliminazione, di una figuraccia. L’anno prima era stato proprio il Real a farci fuori vincendo per 1 a 0 con un gol segnato da un mediano il cui nome suggerì questo titolo: una vittoria di Pirri, a sottolineare un successo inutile visto che nel ritorno a San Siro l’Inter avrebbe maremaldeggiato. Pareggiammo e andammo fuori. Da una vittoria di Pirri a una pirlata. Per cui, allora, non mi accorsi di essere allo stadio. Quell’11 luglio invece sì: rividi l’Inter, le azioni più importanti, la “muleta”, il trionfo in uno dei quattro stadi dove in pochi avevano vinto, la possibilità di vincere la terza coppa (non sapevo ancora di quel maledetto Celtic). Poi al fischio d’inizio del brasiliano Coelho mi accorsi che giocava l’Italia, per la finale del mondiale.
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