Un credito infinito, prodotto da una storia gloriosa, rispetto alla quale ogni componente dell’Inter è da anni un corpo estraneo, fatta salva la presenza statuaria e prestigiosa di Javier Zanetti che, tuttavia, deve ancora dimostrare tutto nella sua nuova vita da dirigente, dopo aver fatto innamorare di sé un intero popolo quando indossava ancora pantaloncini e maglietta invece di un elegantissimo completo blu. Le frasi di Spalletti in conferenza alla vigilia di Inter-Spal, con cui il tecnico nerazzurro ha opportunamente attribuito ai grandi del passato i meriti della strepitosa affluenza di pubblico a San Siro, hanno in qualche modo dettato una linea, solleticando contestualmente la pancia di chi crede che questa Inter sia in qualche modo non ancora all’altezza della sua storia. E ci mancherebbe, si potrebbe anche aggiungere. Incamminatici su questo solco, ciò che verrà in questi mesi resterebbe inevitabilmente lontano dai fasti del passato, anche se la marcia di Spalletti dovesse procedere col ritmo serrato e regolare delle prime tre uscite stagionali. L’Inter, secondo i dettami del suo tecnico, tornerà fedele alla propria identità quando alzerà nuovamente un trofeo, insomma, e tutto il resto è amore concesso sulla fiducia, appunto a credito.
Forse per via dello stesso passato ingombrante, forse in virtù del lungo digiuno, l’ambiente intorno alla squadra è viceversa pronto all’esaltazione, comprensibilmente sognante e ben disposto all’illusione anche dopo un primo, breve scampolo di campionato. I parallelismi diventano quasi inevitabili, con quella corsa all’accostamento dei nerazzurri del presente ai grandi del passato che riempie i cuori di chi non è nato ieri. Quel vasto crepaccio che separa i nomi scolpiti nella memoria da quelli dei protagonisti attuali viene in un istante annullato, ricucito a forza di parole e paragoni impropri. C’è insomma un importante divario tra il percorso tracciato da Spalletti per i suoi ragazzi e la mole di trionfalismo che, tra il detto e il non detto, viene gonfiata a dismisura da parte della stampa, gli addetti ai lavori e persino qualche tifoso che sente il comprensibile bisogno di tornare a sognare in grande. In questo scenario, di per sé, nessun protagonista pare davvero sbagliare. È normale, infatti, che si parli di Inter in grande stile, e che l’attesa di un autentico e credibile ritorno dei nerazzurri al livello che loro compete finisca in qualche modo per precorrere i tempi e prevenire la realtà al primo barlume di fiducia, complice anche il susseguirsi di anni bui durante i quali si è sempre stati convinti di aver toccato il fondo e che a partire dalla stagione ventura, il famigerato ‘anno zero’, non si potesse che risalire. Di contro, appare a maggior ragione condivisibile l’atteggiamento protettivo di Spalletti, che deve aver capito in fretta quanto San Siro, Milano e tutto il popolo nerazzurro sparso in Italia e nel mondo costituiscano un pregio e un orgoglio, ma pure un peso insostenibile per le spalle di alcuni dei suoi.
Si tratta dunque né più né meno del proverbiale, delicato equilibrio tra passione e metodo, cuore e cervello, cielo e terra. È un equilibrio instabile, appunto, e destinato presto a crollare, ché non si può vincere ogni domenica e quel famoso Settebello di successi prima del derby, se arrivasse davvero, vedrebbe l’Inter tagliare trionfalmente un primo traguardo inimmaginabile alla vigilia della prima di campionato. Auspichiamo, però, che al primo stop il castello non crolli: spazio alle incrinature, al diritto di critica e ad ogni reprimenda mossa da chi investe tempo, soldi e coronarie nelle vicende nerazzurre; il disfattismo, quello che travolge ogni cosa, è tuttavia una strada già ampiamente battuta da queste parti, e sufficientemente sperimentata perché qualcuno creda ancora che possa recare dei profitti. Soprattutto, si tratterebbe di un atteggiamento poco credibile, se non colpevole, alla luce dell’esaltazione precedente. Di disfattismo, gli anni bui ne hanno prodotto tanto, e ogni interista ne porta con sé una dose, grande o piccola che sia, pronta a essere sputata fuori alla prima occasione utile. Bisogna resistere alla tentazione però, ché ormai si è capito come non esistano più i calciatori di una volta, e i gruppi, spesso fragili, degli anni passati abbiano finito per liquefarsi ai primi segnali della tempesta. La gara casalinga con la Sampdoria della scorsa stagione –quella del gol di Schick, per intenderci– fu il principio della tregenda, e appare in questo senso esemplare; dopo quella serata, il diluvio. Gli annali sono pieni di belle speranze del calcio che sotto i mugugni di San Siro hanno pure disimparato a palleggiare; occorre quindi prudenza, nel frastuono, per non fare degli eroi di oggi le vittime di domani.
Largo alle fanfare dunque, e ai proclami sognanti di un’Inter finalmente competitiva, come ai bei tempi, per le posizioni di vertice: ciò pertiene al sentimento, componente irriducibile del calcio, ed è perciò giusto indicare al cielo, dimora in cui l’Inter sa ben sedersi e ambisce di tornare quanto prima. Sarebbe preferibile, però, se l’entusiasmo restasse tale anche di fronte alla prima battuta d’arresto, che auspichiamo lontanissima: sarà lì che l’ambiente avrà anch’esso l’occasione del salto di qualità, evitando di infierire a badilate su quella creatura cara che sarà scivolata per la prima volta. Spalletti, dal canto suo, continui invece a puntare ben fisso a terra, un po’ come fa Aristotele nella celeberrima Scuola di Atene di Raffaello: l’atteggiamento mostrato fin qui dal tecnico di Certaldo potrebbe infatti costituire il migliore anticorpo agli isterismi di un ambiente folle e ondivago, proprio come gli innamorati, quelli istintivi per troppa passione e resi famelici dal lungo digiuno.
Autore: Antonello Mastronardi / Twitter: @f_antomas
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