La “prima” ufficiale ha avuto un retrogusto amarissimo e inaspettato, non ha raccolto consensi né tantomeno applausi lasciando piuttosto nella platea il senso di una brutta e deludente sceneggiatura già vista altre volte e che, oltre tutto, non ha riprodotto fedelmente battute e spartiti. Non è andato come ci si aspettava il debutto dell’Inter in campionato contro il Sassuolo per una serie di motivi molto chiari e semplici: condizione fisica diversa tra le due squadre, un paio di giocatori sbagliati al posto sbagliato (Dalbert terzino titolare e Asamoah alto a sinistra), altri fuori giri e mai nel ritmo della gara (Brozovic, Vecino e De Vrij), un paio di contatti e trattenute in area che potevano essere valutati differentemente ma soprattutto una squadra che faticava a manovrare e costruire azioni pericolose.
Ecco la deludente sceneggiatura già vista a cui lo scorso anno l’inserimento di un interprete come Rafinha aveva posto rimedio ma che quest’anno, nelle scelte del mercato, è stata volutamente impostata proprio sull’assenza, del “ragionatore”, del numero 10 classico, di un cervello in mezzo al campo capace di non andare in tilt e non andare a sbattere contro il solito muro. Sono stati scritti, nel corso dell’estate, almeno un paio di editoriali su questa questione concludendo che la scelta del club e dell’allenatore avrà le sue ragioni nell’aver progettato un 11 fatto di ripartenze e imprevedibilità più che di impostazione e palleggio. E niente è più blasfemo che una serie di giudizi pessimisti dopo il primo (non) spettacolo, dopo la prima gara di campionato che, per definizione, è insidiosa e giocata su gambe (e in questo caso anche menti) fragili.
Ma il bello del campionato è che basta resistere qualche giorno alla tempesta di critiche e giudizi che subito arriva il tempo di buttarsi sulla gara successiva che quelle critiche e quei giudizi li potrà acutizzare all’ennesima potenza o, semplicemente, li potrà stravolgere. E’ la stampa, bellezza. Ed è anche il calcio, bellezza. Siamo tutti parte del meccanismo. Ma intanto alt: è il momento della Prima della Scala, momento di una sacralità che sfiora il divino.
Perché San Siro è sempre lì, imponente, affascinante ed enigmatico. E quando arriva il momento di aprire i suoi cancelli e i suoi tornelli, di affollare i suoi anelli, mettersi in fila nei suoi bar e alzare il volume nell’aria ecco che magia, passione e amore per uno stadio, per una squadra, per le abitudini di una vita o anche per l’eccezione di una volta sola che resterà indimenticabile prende forma e si colora con l’entusiasmo che solo il gioco che consideriamo, a torto o a ragione, il più bello del mondo sa regalare. Riapre il Meazza, c’è la Prima della Scala del calcio. Che è diversa in tutto e per tutto dalla “prima” in assoluto nel caldo di Reggio Emilia. Semplicemente perché è la Prima e non la “prima”, perché ora si ritrova il cuore pulsante della propria casa e della propria gente e perché bisogna farla valere, questa differenza.
Una Prima, però, che non ha nulla a che vedere con il glamour e l’eleganza della mondanità milanese come quando ci si riferisce al debutto della stagione teatrale del 7 dicembre. La Prima calcistica dell’Inter nel suo stadio non è fatta di smoking, abiti da sera, convenevoli e coppe di champagne. Perché, come ha detto l’ex tecnico del Napoli e nuovo coach del Chelsea Maurizio Sarri dal paradiso della Premier, la Serie A è una guerra prima delle partite. Anche e soprattutto mediatica.
L’Inter che dagli addetti ai lavori è stata messa al secondo posto di un’ideale griglia di partenza subito dopo la Juve, in realtà deve confrontarsi, oltre che con i bianconeri che hanno uno squadrone persino nelle riserve e che potranno essere gli unici avversari di se stessi se distratti da altri obiettivi, con un Napoli che è sempre lo stesso con in più un top player in panchina, una Roma giovane e rinnovata ma che si basa su colonne affidabili e affermate, un Milan che con Gattuso alla guida sarebbe stato da Champions e non ci è arrivato lo scorso anno principalmente perché non aveva attaccanti che segnassero a raffica. Quel Milan che ora ha Higuain, il miglior realizzatore degli ultimi tre anni. Sarà una guerra, dunque. E partire tra i favoriti, storicamente, all’Inter fa male. Niente smoking dunque, niente glamour. Deve saper mangiare la polvere e persino saperci sguazzare così da mettere in difficoltà chi della polvere non è più abituato nemmeno a sentirne l’odore, la puzza.
Alla Prima della Scala l’Inter deve andare vestita come se andasse in visita ad Harlem, non come se dovesse fare gli onori di casa per un irrinunciabilmente noioso appuntamento mondano. Harlem entra nell’immaginario collettivo per essere il quartiere dei bassifondi di New York, “famous for being infamous” ovvero famoso per essere infame, il classico ghetto americano, terra di nessuno che fa paura a tutti. La realtà dei fatti, ma soprattutto dello sviluppo urbano, fa sì che Harlem, oggi, sia molto di più rispetto al suo passato di leggende metropolitane, nicchia malfamata e culla di violenza e degrado: è un quartiere che porta avanti una rivoluzione culturale, si specchia in locali nuovi con uno spirito ribelle e multiculturale che si riallaccia alla sua storia a suo modo gloriosa e con un senso di appartenenza unico. “Scrittori e artisti si recavano ad Harlem da tutti gli USA per partecipare ad un movimento, perché offriva loro la possibilità di diventare parte di una comunità vibrante” sta scritto nell’Enciclopedia di New York.
Ecco, assumesse l’Inter un dress code e uno spirito adatti ad Harlem: una comunità artistica che prende vita, l’infame che cerca gloria e rivoluzioni. Perché questo campionato va rivoluzionato rispetto all’andamento degli ultimi anni e anche rispetto a quello che la prima giornata, col successo e l’affermazione di tutte le big scese in campo, ha confermato. Del resto, aver costruito una squadra che non si fonda tanto sui piedi raffinati e sulla capacità di ragionare e far girare la palla dei suoi giocatori ma sullo spirito combattivo di Nainggolan o Skriniar, sull’imprevedibilità e sregolatezza artisitica di Perisic o Brozovic, sulle folate di Politano o sulle pennellate che spaccano la tela di Lautaro Martinez, significa, in fondo, aver costruito una compagnia che va a teatro con “lo spirito di Harlem”, col gospel o il jazz nella testa e la bomboletta spray in mano per disegnare graffiti sui muri, con l’occhio vigile di chi deve sopravvivere e affermarsi nel quartiere, con le cicatrici addosso di chi è cresciuto combattendo sempre. Solo imparando a mangiare la polvere, la si potrà buttare negli occhi degli altri. Legittimati ad andare alla Prima della Scala in jeans e maglietta, come appena scesi dalla metropolitana newyorchese per incamminarsi verso Malcom X Boulevard: alla faccia della rivoluzione. Ovviamente senza smoking.
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