Tre anni. Sono ormai tre anni che il rapporto tra l’Inter e lo stadio di Marassi, quartiere a nord-est di Genova, si è fatto alquanto complicato. E c’è da dire che nel passato recente la squadra nerazzurra se l’è passata anche peggio, visto che dover affrontare il Grifone è equivalso per diversi anni a vivere giornate da incubo. Sei le vittorie consecutive della squadra rossoblu tra il 2014 e il 2019, alcune anche di una certa pesantezza per come maturate. Poi sono arrivate tre vittorie consecutive dell’Inter, senza gol subiti e nove gol all’attivo, fino ai pareggi degli ultimi tre incroci. L’ultimo dei quali è un ricordo ancora abbastanza vivo nelle menti del popolo interista per come è maturato, con quel goffo intervento con il braccio nella propria area di Yann Bisseck inizialmente non visto dall’arbitro Feliciani che poi si corresse con l’aiuto del VAR: rigore trasformato al 95esimo da Junior Messias e primi due pesanti punti lasciati per strada in campionato al debutto in campionato.
Un rigore fischiato contro nei minuti finali: questo il sottile filo rosso che lega quel caldo pomeriggio di metà agosto alla partita che andrà in scena questa sera in un campo che, lo abbiamo capito, per l’Inter rappresenta sempre una grande incognita. Solo che questo rigore è qualcosa che brucia ancora parecchio. Perché ha compromesso una partita che l’Inter stava nel bene e nel male mandando in porto con un punto che potrebbe alla lunga fare tutta la differenza del mondo nella classificona della Champions, e buon per i nerazzurri che i risultati del giorno dopo abbiano attutito un po’ gli effetti della sconfitta. E soprattutto perché quel rigore è stato universalmente riconosciuto come un autentico abominio, una decisione fuori da ogni grazia divina, e hai voglia a provare a far comunque ricadere le colpe su Alessandro Bastoni e la pizzicatina galeotta sulla maglia di Florian Wirtz che poi ha inscenato una rivisitazione alquanto opinabile della morte del cigno.
Ormai recriminare su quanto accaduto serve a poco, e del resto dalle parti di Appiano Gentile ormai ci si è fatto il callo a certe sensazioni. Quello con cui invece l’Inter non riesce ancora a fare pace è il dover galleggiare costantemente tra la realtà dei fatti e quella delle narrazioni. Quella che vorrebbe l’Inter in grado sempre di superare tutti gli avversari con largo margine perché altrimenti apriti cielo, è subito un proliferare di casi, problemi, dubbi, fino alla fatidica parola ‘crisi’ che secondo tanti con la parola Inter fa sempre un certo pendant. E anche quando si vince in maniera convincente, partono prontamente i proclami che poi si spengono al primo giro a vuoto, il tutto in un eterno gioco dell’oca dove non ci sono mai né vincitori né vinti, a parte forse le coronarie dei tifosi che però ormai negli anni hanno presumibilmente imparato ad impermeabilizzarsi anche loro.
L’andamento in Champions League è un esempio pratico di questa lunga teoria: l’Inter vince anche bellamente le sue prime quattro partite, come del resto era lecito attendersi, contro le avversarie più abbordabili del calendario ed è coro di elogi, di Top 8 traguardo se non raggiunto quasi, di dimostrazione di forza europea della squadra di Chivu. Poi arrivano due sconfitte, peraltro ambedue in volata e ambedue frutto di un episodio, ed è ripartita la caccia all’errore, al giocatore che non rende più come dovrebbe, alla squadra da svecchiare, alle lacune della rosa. L’apotesi della religione del risultatismo applicata al commento calcistico.
Questo è forse uno degli aspetti poco gradevoli da affrontare nell’ambito del suo lavoro da parte del tecnico nerazzurro Cristian Chivu, che nella conferenza stampa di ieri, condotta con toni forse più piccanti del solito, ha voluto spendere nuovamente parole di difesa nei confronti dei suoi uomini e del loro profitto sin qui, definendo addirittura ottima la stagione vissuta sin qui, in barba a tutte quelle malelingue che in estate definiva l’Inter un gruppo di falliti o finito, certo non le migliori premesse per un tecnico sostanzialmente alle prime armi. Ma che ha avuto dalla sua il merito di portare dalla sua parte l’intero plotone, anche passando da situazioni difficili nelle prime settimane ma facendo fruttare il lavoro e soprattutto una credibilità che è riuscito a costruirsi con le evidenze prima ancora che con le parole.
Il risultato è davanti agli occhi di tutti: c’è stato indubbiamente qualche inciampo doloroso, soprattutto negli scontri diretti che ormai sono diventati il nuovo tormentone negativo della narrazione interista ma la squadra al momento rimane lì, nella business class europea e sul treno di prima classe in campionato. Poi è evidente che siamo soltanto a metà stagione, che basta poco perché tutte le belle parole spese dal mister potrebbero ritorcersi contro di lui anche pesantemente non appena la squadra dovesse, faccia pure tutti gli scongiuri del caso, incappare in altri inciampi più o meno fisiologici. Del resto, abbiamo visto tutti i processi scattati quando l’Inter è caduta in maniera improvvida contro Udinese e Juventus agli albori della stagione. Dimenticando quelli che erano i presupposti che accompagnavano l’avvento di Chivu sulla panchina dell’Inter, un debuttante alla guida della squadra che si vuole sempre dipingere a tutti i costi come la più forte d’Italia, come a voler rimarcare che qualunque risultato che non sia supermegastratosferico possa essere dipinto come un atto dovuto, quando non addirittura il minimo sindacale, e un bottino anche leggermente sotto le aspettative diventerebbe automaticamente il simbolo dell’annata fallimentare.
Chivu ha trovato nell’ultima conferenza stampa il termine forse più adatto per descrivere questa strana sensazione con la quale l’Inter deve convivere pressoché quotidianamente: etichette. Etichette che vengono affibbiate in maniera spesso troppo netta e precipitosa, senza valutare il contesto, o per dirla con le parole del tecnico, la realtà del campo che dice altre cose rispetto a quelle che si vogliono raccontare. Etichette scomode, eccessive, prodotte a getto continuo e che l’Inter deve costantemente togliersi di dosso. E quando lo fa, anche se lo fa bene, spesso rimane con quel senso di appiccicaticcio addosso…
In conclusione, un cenno anche alla grande giornata vissuta dall’Inter Women, squadra che ieri è stata capace di asfaltare il Milan nel derby femminile con un secco 5-1, trascinata dalla tripletta di Haley Bugeja. Mentre gli uomini continuano a lottare col tabù della stracittadina, prima la squadra Under 20 poi le ragazze, raramente celebrate per il lavoro e per i loro risultati come effettivamente meriterebbero, hanno saputo ridare lustro ai colori nerazzurri, magari in formato minore ma dal loro punto di vista sempre di una vittoria di prestigio si tratta.
Autore: Christian Liotta / Twitter: @ChriLiotta396A
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