Domenica ore 13. Inter-Cagliari. Vado a San Siro “spensierato”. Mi aspettano amici che vengono da mezza Italia, e condividono con me ogni giorno (fino a tarda ora…) ironie virtuali, citazioni d’autore, fotografie d’epoca e di gruppo, passione per l’Inter, e soprattutto una genuina umanità nerazzurra. Siamo quelli di “Se rinasco…”, una mitica località che si trova da qualche parte, su facebook, ma anche nella vita reale, perché abbiamo facce da Inter, e tanta voglia di condividere i momenti buoni e quelli meno buoni, consapevoli di averne viste di ogni tipo, nel corso degli anni, e di non esserci mai persi d’animo, amando questi colori per quello che sono: bandiere di gente per bene, appassionata del bel calcio, e pronta ad assaporare piccole e grandi prodezze di giocatori, di campioni ma anche di onesti artigiani del pallone, indulgenti di fronte a qualche errore, felici nel momento della vittoria e del gol memorabile, ma anche consapevoli che l’Inter è questa roba qua, incrocio di razze e di culture, regole semplici ed oneste, gerarchie basate sulla qualità e sull’impegno, un po’ snob se vogliamo, ma anche provinciali, umorali, sensibili, aspri, ottimisti e fatalisti. E un po’ sensitivi. Perché è vero che sono “spensierato” in vista dell’incontro fuori dallo stadio (un panino, una birra, e poi…). Ma sento che la partita non sarà semplice, prima di tutto per la qualità degli avversari (mi sembra quasi una legge di Murphy: le squadre di mezza classifica ci affrontano sempre nel momento di forma migliore). E poi perché il nome dell’arbitro mi sfugge, non l’ho mai sentito prima. La cosa di per sé non vorrebbe dire nulla, ma una sottile inquietudine serpeggia sotto traccia, anche se cerco di allontanare i fantasmi.
L’incontro con gli amici è strepitoso, foto di gruppo, sorrisi, abbracci, battute. Uomini e donne di ogni tipo, e anche di generazioni diverse (io sono ovviamente fra i senatori…), eppure la differenza non si sente, perché c’è l’Inter di mezzo, e sappiamo che cosa vuol dire. Più o meno come Stramaccioni nel cuore di tutti, adesso, con i suoi 36 anni. Ci lasciamo verso le 14, con l’impegno di salutarci alle 17 davanti al Baretto della Nord. Ci stringiamo nelle sciarpe, sempre quelle storiche, che abbiamo portato ovunque, magari anche a Madrid. Un freddo sibilo d’inverno mi colpisce all’ingresso in parterre arancio. Colpo d’occhio gradevole, tribune abbastanza gremite, la sconfitta di Bergamo non ha lasciato il segno, e l’onda lunga dell’impresa a Torino ci galvanizza. Gli amici Templari han riempito il parterre dei tifosi a rotelle di una quantità incredibile di bandieroni, che ci avvolgono prima del fischio d’inizio. Adrenalina, colore e calore insieme. Ci siamo.
E poi. Tac. Fallo su Milito, anzi no. Tac, fallo su Cassano, macché. Fallo di Cambiasso, cartellino giallo all’istante. Presentimento oscuro, anzi abbastanza chiaro. Il gol di Palacio ci fa sperare in un andamento diverso, giochiamo bene, ma troppo lunghi, annoto mentalmente. Partita brillante, divertente, poi cominciamo a perdere metri, rallentiamo, spero che arrivi l’intervallo presto, ma il pareggio arriva prima del “tè caldo” (non sopporto il tè caldo allo stadio e nelle note telecronache di chi sappiamo). Penso: nell’intervallo Stramaccioni li galvanizza e si riparte. Più o meno tutti lo speriamo. Sappiamo infatti che questa squadra ha un cuore grande così, e si esalta proprio quando le difficoltà aumentano. Ma la ripresa non cambia la sostanza, anzi. Certo, Milito sbaglia un gol quasi fatto. Ma l’applauso e il coro della curva lo consolano e dimostrano come si deve comportare un tifo degno di questo nome, con un campione come il Principe. Solo dalle tribune parte qualche nota stonata, battute sciancate e tristi, alle quali ricambio con occhiate feroci, tanto non serve a nulla. Arriva il 2 a 1 per i sardi, da lontano non riesco a decifrare l’azione concitata. Spero nei cambi, si capisce che abbiamo bisogno di buttare il cuore oltre l’ostacolo. Rivedo con piacere Alvarez, è un giocatore particolare, avrebbe bisogno di tante partite di fila, perché ha classe da vendere, testa alta e piedi buoni. Non faccio a tempo a dirlo dentro di me, che Ricky azzecca il cross della domenica, potente e teso come una saetta. Certo, sarà autogol quello di Astori, ma il merito è di quel pallone acido, velenoso che se non lo fermava il difensore col piedone, forse entrava ugualmente per un tocco dei nostri. San Siro diventa una bolgia, mi piace ascoltare il ruggito degli spalti, gli incitamenti ora
all’unisono, senza dissonanze (che torneranno dopo, magari nei blog e nei talk show). E’ un finale da grande Inter. Ranocchia centravanti, mossa che mi ricorda il Mourinho quando sparigliava le carte per rimontare e vincere, mandando Matrix a fare la stessa cosa. Lo so, lo so, non bisogna accostare Stramaccioni a Mourinho, ma tant’è. La riprova pochi minuti dopo. Starò anche diventando presbite, ma vi assicuro che dal parterre arancio, quasi a metà campo, non ho avuto alcun dubbio, gamba piena su Ranocchia che rovina in area di rigore. Non posso capire se dentro o sul limite dell’area, ma il fallo è così solare da non ammettere esitazioni. I fantasmi si materializzano. Giacomelli fa un passo verso l’area con il gesto tipico di chi sta assegnando il calcio di rigore. Due metri e poi si gira. Tutti abbiamo urlato la stessa imprecazione del presidente Moratti. Senza se e senza ma. E Strama che si fa portare via da Cassano, un mito.
Una domenica da Inter. Poi la birra con gli amici, le ultime considerazioni, mentre si svuotano i parcheggi. Il nostro popolo è incazzato, ma corretto, siamo gente fatta così. Alla prossima. In silenzio stampa. Ma con tanto orgoglio nel cuore. C’è solo l’Inter, caro avvocato Prisco. E’ proprio vero.
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