"Mi piaceva stare con i ragazzi, fare gli allenamenti. Avevo in testa uno schema, il mio preferito: sulla fascia destra lo scambio tra due giocatori per fare il cross e i due attaccanti che incrociavano per tirare. Mi piaceva molto. Non le sembri strano ma l’allenatore dal quale ho più imparato si chiamava Bruno Arcari ed era il secondo di Puricelli al Milan. Un vero maestro di calcio e di vita". Lo racconta Osvaldo Bagnoli, intervistato dal Corriere dello Sport.
Lo scudetto con il Verona. Eravate consapevoli di poter riuscire in un’impresa storica per la squadra, il calcio, la città?
"Vincemmo la prima e la seconda di campionato e restammo in testa a lungo. A Natale io riunii i ragazzi e dissi loro: “Guardate che possiamo vincere davvero lo scudetto. E i primi a saperlo siete voi. Ma non dobbiamo dirlo, fino all’ultimo. Dobbiamo sostenere che il nostro obiettivo è la salvezza”. Vincemmo il campionato con una giornata di anticipo. L’ultima partita fu una festa. Non so se si ripeterà mai più. Lo auguro al Verona e a ogni squadra che possa vincere un titolo per la prima volta. Io nella città di Giulietta e Romeo ho raggiunto risultati fantastici: uno scudetto, due finali di Coppa Italia e due quarti posti, oltre a tre partecipazioni alle coppe europee con il traguardo dei quarti di finale in Coppa Uefa. Anni speciali, figli di passione e di programmazione. E, in primo luogo, del talento dei ragazzi".
Come finì la sua avventura nel Verona?
"Male. Era cambiata la proprietà, avevano venduto per ragioni di bilancio molti giocatori e retrocedemmo. Perdemmo una partita col Cesena e fu il buio. Ma la società aveva visto lo spettro del fallimento e tutti ne risentimmo".
Circola una leggenda: che Gianni Brera avesse, in quel periodo, suggerito a Berlusconi di prenderla come allenatore di quel Milan nel quale era cresciuto come giocatore. E che il Cavaliere…
"La fermo perché me lo raccontò, con mio grande stupore, Gianni Brera. Berlusconi disse che non mi avrebbe preso perché ero comunista. A parte il fatto che non era una considerazione tecnica, era anche una affermazione infondata. Io votavo socialista, solo perché mio padre lo faceva. Non mi sono mai occupato di politica, non mi interessava. Sono rimasto davvero sorpreso".
E così finì alla concorrenza, l’Inter.
"Il primo anno fu bellissimo. Da tempo i nerazzurri andavano male. Arrivammo al secondo posto e disturbammo il Milan, allora fortissimo. L’anno dopo ebbi una discussione con il presidente Pellegrini che alla fine mi esonerò. Ho letto una sua intervista, dieci anni dopo, nella quale si rimproverava di averlo fatto e ne sono stato contento. Per me, nel calcio, ognuno deve fare il suo mestiere. Un presidente non deve fare l’allenatore e viceversa".
Bergomi mi ha detto che lei era un tecnico avanti sugli altri, che giocava col 3-5-2 quando ancora non si sapeva cosa fosse. Ma, come unica nota critica, ha sottolineato che lei si trovava bene con undici titolari e faticava a gestire una rosa larga.
"Ha ragione. Io, quando facevo il calciatore, volevo sempre giocare. Anche in una categoria inferiore, purché giocassi. Da allenatore mi rendevo conto di quanto fosse doloroso lasciare in panchina qualcuno e così si creavano tensioni. Più largo era il gruppo e più faticavo. E’ vero".
Perché dopo l’Inter non ha più allenato?
"Perché volevo stare a casa, con la mia famiglia. Negli ultimi anni non li avevo quasi visti. Perciò decisi di smettere. Non avevo ancora sessant'anni. Certo l’esonero dell’Inter mi aveva dato un dolore ma fu prevalente la voglia di ritrovare la mia vita e la sua semplicità. Non ho rimpianti, mai avuti. Torno allo stadio ogni tanto a vedere il Verona. Il presidente mi manda sempre due tessere, una per mia moglie e una per me. Lei mi veniva sempre a vedere, sia da calciatore che da allenatore. Ora andiamo insieme, allo stadio. E ancora mi diverte, perché è, sempre, un gioco. Il più bello che ci sia".
Autore: Alessandro Cavasinni / Twitter: @Alex_Cavasinni
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