A volte è doveroso fermarsi. Pensare. Respirare. Sospirare. E scendere dalla giostra. Distaccarsi consapevolmente e volontariamente dalla continua e quotidiana frenesia che ti costringe ad abitudini e doveri che, però, in certi momenti si dimostrano insignificanti di fronte alla grandezza devastante di certe situazioni. Improvvise e magari dolorose. Certi uomini lo meritano. Perché gli uomini non sono tutti uguali e non possono essere descritti con le medesime parole, simili aggettivi e identici meccanismi. Gigi Simoni, ad esempio, uno degli allenatori dell'Inter più amati, ora ricoverato in terapia intensiva, merita che ci si fermi, che si scenda, che si respiri un momento, che si prenda fiato. Per rispetto e dovere verso un uomo differente.
Motivo per cui in quest'editoriale non ci saranno considerazioni calcistiche, riflessioni e annotazioni su allenatori, giocatori, squadre. Non si parlerà di vittorie né di sconfitte. Ci sarà solo una sorta di schizzo, di foto in lontananza, o sfocata, di una persona incontrata pochi mesi fa. Con tante e volute censure perché la magia di un incontro, di uno scambio, di un incontro, perde il suo effetto, se spiegata. Le parole non riusciranno mai a raccontare la gentilezza di un sorriso, la cortesia di un gesto, la semplicità di uno sguardo. Che per questo ognuno decide di conservare quasi come fosse qualcosa di materiale, di prezioso e di raro.
Mancavano pochi giorni a Pasqua e ricordo che iniziava a fare caldo. Il sole splendeva deciso e il navigatore, inizialmente, mi portò davanti alla casa sbagliata. E quando davanti a me si aprì finalmente il cancello giusto, il senso immediato di pace e quiete non erano dovute solo al verde di un giardino perfettamente gestito e al profumo di fiori delicatamente curati. Erano dovute a un sorriso discreto ma evidente che mi venne ad accogliere mentre dalla macchina scaricavo lo zaino con dentro la telecamera. "Trovato traffico?", mi chiese subito Gigi Simoni, vestito con un elegante pantalone blu, una camicia azzurra, un maglione leggero e un fazzoletto di seta attorno al collo. Dettagli, niente affatto banali, percepiti da me come segno di rispetto. Era come se stesse dando al nostro incontro un'importanza che nemmeno mi aspettavo o immaginavo. "Sa, di questi tempi iniziano tutti ad andare al mare, spero non ci abbiate messo troppo ad arrivare".
Entrati in casa, mostrò orgoglioso un enorme televisore acceso. "Così non mi perdo neanche una partita". Una volta seduto su una poltrona del salotto, davanti a un grande camino spento, parlò al lungo. E alla fine si scusò perché, diceva, non era più bravo come una volta a fare le interviste. Dopo un cenno d'intesa con la moglie (che nel frattempo aveva offerto il caffè a tutti) mi portò nella stanza dei ricordi. Una stanza piena di maglie di ogni squadra, foto, trofei, medaglie. Una carriera e una vita perfettamente racchiuse in tanti oggetti capaci di evocare momenti e date ben precisi. L'oggetto di culto è la maglia che Ronaldo aveva indossato nella semifinale di Coppa Uefa nel '98. In mezzo alla neve e al ghiaccio di Mosca. Infatti "vede, è ancora sporca di fango, non l'ho mai voluta lavare, è bella così". Poi Totti, Baggio, l'Inter, Zamorano, gli scherzi di Taribo West.
"Se ricapitate da queste parti telefonate e passate di qua", disse riaccompagnandoci alla porta e solo dopo essersi assicurato che avessimo il numero di telefono del miglior ristorante di pesce della zona. Non avevo fatto nulla per meritare tanta disponibilità e un'accoglienza che si riservano in genere agli amici. "Lei è molto gentile", mi aveva detto in una delle tante telefonate che avevano preceduto il nostro incontro. La gentilezza la considero il complimento migliore che si possa fare o ricevere.
E quello che le persone sanno trasmettere solo incontrandoti, ciò che lasciano i loro gesti e le loro smorfie, i loro passi e i loro occhi sono il senso di un mestiere che molto più spesso dovrebbe andare oltre il contenuto di un'intervista o la ricerca della frase efficace su cui il giorno dopo si farà un titolo. Quel giorno c'era caldo e c'era il sole. Si sentiva il profumo del mare. E avremmo preso la direzione di casa solo molte ore dopo, come per non perdere tutte quelle sensazioni di piacere, di pienezza. Come se avessimo voluto fermarci per non perdere la sincerità sorprendente di un momento felice.
Fermarsi. Pensare. Respirare. Sospirare. E scendere dalla giostra. Come fosse un segno di rispetto. Un atto dovuto di riconoscenza. Tanto poi si riparte sempre perché è fisiologico e, anzi, perché è una questione di sopravvivenza. Come l'istinto di muovere braccia e gambe e nuotare verso l'alto mentre si sta andando a fondo. Un altro giro di giostra, come l'ultimo libro del maestro Tiziano Terzani. Un libro che è la ricerca di una cura per una malattia ma soprattutto la ricerca della pace dentro se stessi. Perché certi uomini sono e sanno essere differenti. Un altro giro di giostra è ciò che ci aspetterà, comunque. Perché è la vita che riparte sempre. Magari dopo averti piacevolmente sorpreso, anche solo per un attimo. O magari dopo averti colpito con un cazzotto nello stomaco che ti piega in due ma poi ti fa rialzare con un sorriso beffardo di sfida.
"Il tempo assegnatoci dal destino non si misura in anni, giorni e ore - queste sono tutte nostre invenzioni - ma in respiri. Rallentare il ritmo dei respiri significherebbe allungarsi la vita", scriveva Terzani. Salve mister, le volevo dire che quel ristorantino sul mare poi lo avevamo trovato e si era mangiato effettivamente benissimo. E anche quella passeggiata lungo il molo valeva la pena di essere fatta. Come varrebbe sicuramente la pena fare un altro giro di giostra. E quando ricapito dalle parti di Pisa stia tranquillo che la chiamo e passo per un saluto.
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