Il 2013 resterà nella storia come l’anno del passaggio epocale tra una presidenza tradizionale e identificativa come quella di Moratti e quella moderna e straniera di Thohir.
Quello che mi preme non è solo sapere se l’Inter tornerà vincente ai massimi livelli, ma sapere se la pelle dell’Inter, che non è rappresentata unicamente dai colori e dai trionfi, resterà tale. Presidenti come Fraizzoli, Pellegrini e Moratti hanno perpetuato una coscienza sognatrice, tenendo intatto il pazzo interismo, pur cercando la concretezza.
Ogni presidente ha cercato di fare meno compromessi possibili con la realtà in cui operava.
Ma è stato un azzardo in un mondo del calcio che tende a infangarti e poi ad appiattirti.
E, se cerchi di elevarti, proclama al mondo che sei peggio degli altri.
E’ il destino degli idealisti.
Ora l’Inter ha un presidente che ha idee meno romantiche ma più legate a un preciso concetto di società e dei valori che incorpora. I giovani, il progetto di squadra, lo stadio più funzionale, l’entusiasmo e la responsabilizzazione di ogni componente.
Mi chiedo se sotto la guida di Erick Thohir l’anima resterà quella. Moratti, nella bella intervista rilasciata a Giorgio Porrà, ha detto una cosa che mi ha conquistato e che insieme lo allontana dalla maggioranza degli interisti. A domanda precisa ha risposto che per lui Recoba è stato il giocatore più straordinario mai avuto, era un vero fenomeno, ha detto con convinzione. Per la maggior parte dei tifosi e della stampa Recoba era un costoso giocattolo da tenere in giardino. Recoba era invece un simbolo di quella unicità, di quell’interismo poetico che andava preservato ad ogni costo. Alvaro ha avuto la colpa di non comportarsi sempre professionalmente o di non imporre il suo talento. Lo ha capito tardi anche lui. Ma Recoba rimane l’espressione di un dilemma che si è riproposto tante volte e si rinnoverà ancora.
Non si tratta solo di capire o meno di calcio ma di come vedi la vita. La capacità di esaltare Rummenigge, Ronaldo, Brehme, Matthaeus o Eto'o ce l’hanno tutti. Veri e propri fuoriclasse già affermati prima di vestire il nerazzurro. Ma quella di leggere il talento in giocatori eccezionali non è arte, non implica nessuno sforzo.
Chi criticava Corso, Beccalossi, Pirlo, Seedorf, Roberto Carlos, Recoba, Coutinho, Alvarez o Kovacic lo farà sempre.
Orgogliosamente.
Probabilmente perché chi ha i piedi raffinati dovrebbe subito coprire, avere i tempi di gioco, spingere, aiutare la squadra, non giocare mai da solo, dare subito il pallone, correre come e più degli altri e segnare.
In breve dovrebbe essere un fenomeno. Il solo fatto di avere alcune ma non tutte queste caratteristiche ha reso questi giocatori colpevoli agli occhi dell’opinione pubblica. Responsabili di non essere all’altezza delle aspettative e forse del loro talento.
Per questo parte in automatico un’opera di svilimento tesa a ridimensionare fino a diventare persino sprezzante. Salvo poi ricredersi quando alcuni di questi cambiano squadra. E così nemo propheta in patria. Se Recoba si fosse trasferito tanti lo avrebbero rimpianto, se Kovacic e Alvarez la cambiassero adesso sarebbero ennesimi rimorsi.
La vera “fatica” si dovrebbe fare nel comprendere che il giocatore con la vocazione va incoraggiato come si fa con un artista. Si ama il calcio per il dribbling, la giocata, il lancio illuminante, il gol impossibile o il colpo di tacco. Ma questi colpi, se non si vince, vengono deformati e percepiti come inutili. E allora si preferisce una buona chiusura, un passaggio banale ma riuscito, un contrasto vinto con grinta.
Se l’estro viene fischiato e dileggiato questo avvizzisce e alla fine si spegne. Oppure, se gli va bene, cambia pianeta. E’ dunque questo contrasto tra gli incompresi, i giocatori che rappresentano più di ogni altro quella forma d’arte che può essere il gioco del calcio. E sono loro i depositari di un'identità.
Poi il calcio è gioco collettivo ed è bello vedere una squadra che si muove armonicamente, che ha veri guerrieri come Simeone, Ince, Cambiasso.
Paradossalmente l’interista si innamora più dei trascinatori perché vede in loro quello spirito che vorrebbero in ogni giocatore. Ma il loro è un compito diverso. I giocatori di classe hanno il dovere di provare e dunque sbagliare, il compito di rischiare, più di ogni altro giocatore.
Se Kovacic o Alvarez non rischiassero una verticalizzazione, un lancio lungo e non provassero a saltare l’uomo sarebbero giocatori come migliaia di altri.
Non è necessario che diventino dei campioni assoluti per essere considerati.
Esattamente come l’Inter, che rivendica quel senso di unicità, per la sua storia, errori compresi, più che per la somma delle sue vittorie.
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