"L'Inter è squadra femmina, quindi passionale, volubile, e pertanto agli antipodi del pragmatismo che caratterizza la Juventus".
Parlava così Gianni Brera della contrapposizione atavica quanto naturale, forse innata, tra Inter e Juventus, le due società che trovano l'una nell'altra l'esatta contrapposizione, nonché la perfetta esaltazione di se stesse. Concretizzazione della filosofia eraclitea che spiega l'esistenza nel rapporto di interdipendenza di due elementi opposti, in contrasto, in lotta tra loro, l'uno dipendente dell'altro; l'uno in virtù dell'altro. Seppur migliaia di anni dopo e in un contesto che poco s'addice alla filosofia presocratica, Brera trasfigurava, popolarizzando, il massimo concetto eracliteo applicandolo al calcio, con buona pace di Eraclito stesso, e diede vita ad un concetto tuttora attuale: ciò che è Inter non è Juventus e viceversa. L'una opposta dell'altra, l'una in lotta con l'altra, e così sia, decennio dopo decennio. E decennio dopo decennio l'una dipendente dell'altra, con buona pace di chi sogna l'estinzione della rivale.
Chissà se il pensiero del buon Gianni traesse spunto da questa contorta quanto antica visione. Certamente nasceva da un dualismo di base che vedeva contrapporre, in principio, le società più titolate e tifate d'Italia; uno dei motivi che spinse Brera, nel 1967, a coniare il famoso appellativo Derby d'Italia. Derby come se fosse una stracittadina, laddove a contrapporsi però erano due città, nonché due regioni, perché, come la storia recita, lo scontro tra Inter e Juventus era all'epoca vissuto come una rivalità economica, politica e sociale tra Milano e Torino che insieme a Genova costituivano il cosiddetto triangolo economico.
Da allora derby d'Italia fu. Ma in quel lontano 1967 all'Inter mancavano una Champions League, due Coppe Uefa, otto scudetti, sei Coppe Italia, cinque Supercoppe italiane e un Mondiale per Club. Altrettanti trofei e più mancavano alla Juventus che però, prima di tutto, nel palmares contava una Serie B in meno. Solo? No, tutto. Sì, perché derby d'Italia era anche e soprattutto questo: "Inter-Juventus venne vista anche come quella fra le due squadre al tempo più titolate e tifate d'Italia, nonché fra le poche all'epoca mai retrocesse dalla Serie A" come si legge su Wikipedia. E allora c'è chi dice che derby d'Italia non è più da quel meno lontano 2006 al quale, purtroppo o per fortuna per lui, Gianni Brera non potè assistere. Come lo chiamerebbe oggi? Non lo sappiamo, né lo sapremo mai. Ma va bene così, e di lui ci teniamo quell'appellativo tanto romantico che tutt'oggi resta attuale, con tanti, scudetti in più nella bacheca dei titoli bianconera ma anche altrettante macchie più nere che bianche cucite, inevitabilmente, addosso.
Astio mai smaltito dice chi si erige a giudice di moralità, eppure un tifoso lo sa. Lo sa chi ha vissuto il '98, chi ha vissuto il 2002, o chi - sebbene siano meno rispetto a chi legge queste righe - ha vissuto il '61. Sì, il 1961. Quel dieci giugno sessantuno di cui ieri parlava Sandro Mazzola, quando di Calciopoli non c'era ancora traccia, ma forse preludio. Perché delle strane incongruenze e perversioni di un sistema troppo poco nobile per essere calcio certamente taccia ce n'era eccome. Ma quello era solo l'inizio, un inizio di uno stravolgimento che lo scorrere delle lancette ha annualmente sbiadito. E di quel derby d'Italia resta poco, nella mobilitazione degli attori prima di tutto. E se del '61 a ricordarsene sono in pochi persino di quel 2006 rimane quasi un opaco e offuscato ricordo e a portarne le cicatrici sono in pochi, tristemente bollati come fanatici.
Il calcio cambia alla stessa velocità degli assetti economici: si mischiano le carte, le bandiere cambiano il verso secondo la direzione del vento ed essere tifosi con distinzione di valori oggi, nell'epoca dei governi dalle larghe intese finiti puntualmente in crisi, è quasi un crimine di cui vergognarsi e guai a dire che ciò che è Inter non può essere Juventus e viceversa. Specie di questi tempi in cui l'Inter ha più le sembianze di un governo dalle larghe intese che con uno scossone qua e uno là è finita dare parvenza di crisi. Nel trambusto degli uragani c'è puntualmente chi trova il pretesto di avanzare un profetico "l'avevo detto", a torto o a ragione, che di edificante però ha poco o nulla. Se sarà pur vero che il vecchio è sempre meglio del nuovo, al quale dar fiducia costerà sempre più di qualche fatica in più, la sfiducia proprio nel momento di crisi rischia di mandare i governi in frantumi e nel bel mezzo di una pandemia. Al contrario, una maggioranza di fiducia ad occhio e croce sembra la via più saggia da seguire malgrado una coalizione che ad onor di valori sembra fornire parecchi motivi per storcere il naso.
E allora tanto vale proseguire verso la strada tracciata malgrado chi ne dovrebbe essere portavoce, nel nome o meno di una strategia, al faccia a faccia più importante di sempre dia l'importanza "di soli tre punti". Nel bene di una vittoria che tre punti li vale davvero, ma solo a parole e/o sulla carta, seppur a distanza e in maniera totalmente innaturale, mantenere la compattezza vale quegli stessi valori di quel lontano 1967: il fine giustifica i mezzi, e ricordarsi che "l'Inter è squadra femmina, quindi passionale, volubile, e agli antipodi del pragmatismo che caratterizza la Juventus" è necessario. Perché in quegli spalti un tempo pieni, di cui forse ci siamo dimenticati, tifare Inter è questione d'onore e mancarle di fiducia adesso significherebbe proclamare una crisi di governo che al popolo nerazzurro mai quest'anno, come in quel lontano '98, toglierebbe più che uno scudetto, un pezzo di morale. E allora nel nome di Brera, di un derby d'Italia, diverso, ma pur sempre tale, fiducia all'Inter per amore dell'Inter stessa.
VIDEO - AMARCORD DERBY D'ITALIA - VERON SU INSTAGRAM RICORDA LO "SGARBO" ALLA JUVENTUS
Autore: Egle Patanè / Twitter: @eglevicious23
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