All or nothing. Non esiste una via di mezzo nel calcio quando c'è in palio un trofeo, men che meno se a contenderselo sono Inter e Juventus. Il primo derby d'Italia che conta dopo l'era Antonio Conte, colui che ha creato da capopopolo e distrutto da nemico un impero potentissimo, è la certificazione di un passaggio di consegne definitivo dopo lo scudetto di maggio: il titolo di supercampione definisce la squadra di Simone Inzaghi come quella da battere nei confini nazionali perché è arrivato a gennaio, non ad agosto con il mercato ancora in divenire (Lukaku e Ronaldo sarebbero finiti inevitabilmente in copertina). La finale di San Siro non può essere considerata solo una propaggine della stagione precedente, come sfida tra chi porta sul petto il tricolore e la coccarda, perché i valori hanno avuto il tempo di cristallizzarsi anche in quella corrente, ribadendo che i 13 punti di differenza tra le due eterne rivali dell'anno scorso ci sono ancora tutti (virtualmente Dzeko e compagni potrebbero addirittura essere a +14 dopo 21 giornate). Non è un caso che, al di là dell'imprevedibilità di una gara secca, i favori del pronostico alla vigilia pendessero nettamente dalla parte della formazione che è padrona del campionato praticamente da undici mesi. Lasso di tempo importante in cui ad Appiano Gentile è stata plasmata la famosa mentalità vincente, un 'acquisto' inedito nella recente storia interista che più di qualcuno ha sottostimato di fronte agli addii rumorosi e dolorosi di Lukaku, Hakimi ed Eriksen. L'eredità inestimabile lasciata dal doppio ex Conte, ieri grande assente-presente, ha assunto addirittura le sembianze della parola 'ciclo vincente' nella conferenza stampa pre-partita svoltasi alla Continassa. Una domanda a cui ha dovuto rispondere Max Allegri, questa volta nelle vesti di spettatore che guarda da lontano i successi di quell'Inter che nei suoi anni di gloria a Torino era giusto una comparsa dopo il testa a testa tricolore del 2011 quando sedeva sulla panchina del Milan: "Non so se l'Inter aprirà un ciclo, noi dovremo essere bravi a mettergli il bastone tra le ruote. La finale è gara a sé, in 38 partite vince la più forte. Noi dobbiamo raggiungere quelli che sono davanti, poi l'anno prossimo vedremo. Dobbiamo accorciare i tempi per ricominciare a lottare per lo scudetto".
Dichiarazioni che valgono più di un trofeo da mettere in bacheca, ieri sudato fino al gol liberazione di Sanchez al 120', perché dopo il triplice fischio di Doveri il gap resta e in più la Juve, dopo un decennio da dominatrice assoluta, ha perso la rara occasione per non concludere la stagione con zero titoli per la seconda volta dall'insediamento di Andrea Agnelli come presidente. Ora rimane la magra consolazione della Coppa Italia, dal momento che la Champions League appare pura utopia senza quel Chiesa che è l'unico ad avere una dimensione internazionale. Il rischio del fallimento sportivo è dietro l'angolo (lo scudetto ora è il quarto posto), un epilogo quasi scontato dopo che la proprietà ha sbagliato tutte le scelte al culmine di una programmazione eccellente partita con l'inaugurazione dell'Allianz Stadium: il divorzio da Beppe Marotta è stato il primo segnale dell'inizio della fine, coincisa con la detronizzazione dopo nove anni di dominio e l'esilio del re CR7 in Premier. Così l'Inter si è presa tutto lasciando a bocca asciutta la Juve, in un'inversione dei ruoli che per ora ha emesso una sola sentenza: l'abdicazione al ruolo di protagonista della Vecchia Signora. Per capire la continuità della Beneamata ad alti livelli occorrerà aspettare almeno qualche mese, anche perché nel frattempo il Milan è uscito dall'anonimato ed è pronto a recitare il ruolo di antagonista meglio di quanto siano riusciti a fare Roma e Napoli dal 2012 in poi. "Stiamo in allerta perché nel calcio cambia tutto in una settimana", ha ammonito martedì scorso capitan Handanovic. Sottolineando che non esiste divertimento senza quel 'piacere di vincere' che si prova solo alla meta. Ieri, in una notte lunghissima al Meazza, l'Inter ha sperimentato la paura di non farcela per 119', contro un avversario inferiore e indebolito dalle numerose assenze, prima di godere del primo trionfo della gestione Inzaghi. Tutto o niente nel giro di qualche secondo, un monito anche per il futuro.
Dichiarazioni che valgono più di un trofeo da mettere in bacheca, ieri sudato fino al gol liberazione di Sanchez al 120', perché dopo il triplice fischio di Doveri il gap resta e in più la Juve, dopo un decennio da dominatrice assoluta, ha perso la rara occasione per non concludere la stagione con zero titoli per la seconda volta dall'insediamento di Andrea Agnelli come presidente. Ora rimane la magra consolazione della Coppa Italia, dal momento che la Champions League appare pura utopia senza quel Chiesa che è l'unico ad avere una dimensione internazionale. Il rischio del fallimento sportivo è dietro l'angolo (lo scudetto ora è il quarto posto), un epilogo quasi scontato dopo che la proprietà ha sbagliato tutte le scelte al culmine di una programmazione eccellente partita con l'inaugurazione dell'Allianz Stadium: il divorzio da Beppe Marotta è stato il primo segnale dell'inizio della fine, coincisa con la detronizzazione dopo nove anni di dominio e l'esilio del re CR7 in Premier. Così l'Inter si è presa tutto lasciando a bocca asciutta la Juve, in un'inversione dei ruoli che per ora ha emesso una sola sentenza: l'abdicazione al ruolo di protagonista della Vecchia Signora. Per capire la continuità della Beneamata ad alti livelli occorrerà aspettare almeno qualche mese, anche perché nel frattempo il Milan è uscito dall'anonimato ed è pronto a recitare il ruolo di antagonista meglio di quanto siano riusciti a fare Roma e Napoli dal 2012 in poi. "Stiamo in allerta perché nel calcio cambia tutto in una settimana", ha ammonito martedì scorso capitan Handanovic. Sottolineando che non esiste divertimento senza quel 'piacere di vincere' che si prova solo alla meta. Ieri, in una notte lunghissima al Meazza, l'Inter ha sperimentato la paura di non farcela per 119', contro un avversario inferiore e indebolito dalle numerose assenze, prima di godere del primo trionfo della gestione Inzaghi. Tutto o niente nel giro di qualche secondo, un monito anche per il futuro.
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