"Ho avuto la fascia di capitano in ogni squadra in cui ho giocato a parte l'Inter. Il motivo? Zanetti non si fermava mai...". Nicolas Burdisso racconta la sua lunga carriera alla Gazzetta dello Sport. Ecco alcuni stralci.

LA MALATTIA DELLA FIGLIA - "La storia è nota: mia figlia Angelina a due anni deve sfidare una leucemia, io smetto di giocare per 6 mesi che passo in ospedale, torno solo quando lei è fuori pericolo. Nel calcio si parla di confronti diretti: quello fu con la vita. Mi insegnò tre cose. La prima: cos’è la vera paura. Oggi non ne ho più perché Angelina sta benissimo, anche se ogni volta che le viene un banale mal di testa mia moglie cambia faccia. La seconda: davanti alla paura un calciatore è un uomo come un altro. I soldi aiutano, se non ne avessi avuti non avrei potuto lasciare il mio lavoro per un po’, ma possono finire presto e comunque non sono quelli a salvarti da ansia, depressione, sensi di colpa: ho visto la vita di Adriano stravolgersi giorno dopo giorno, quando morì suo padre. La terza: tutti abbiamo paura, ma dopo la paura viene sempre il coraggio. A chi più, a chi meno: dipende dal grado di sfida che ti nasce dentro. E non c’è sfida più grande di quella per la vita di un figlio, ovvio".

LA RISSA DI VALENCIA - "La necessità di vivere quell’esperienza a 23 anni con la maturità di uno di 40, dover per forza relativizzare il calcio che fin lì mi aveva dato solo vittorie, mi lasciò dentro un sacco di cose inespresse, più che irrisolte. Me lo confermò uno psicologo: la rissa di Valencia fu una delle tante montagne russe su cui ero salito, grandi partite e grandi errori, gol ed espulsioni per falli clamorosi. Quando Marchena iniziò a prendermi in giro e a insultarmi con Joaquin, andandogli addosso tiravo fuori cose che avevo compresse dentro. Però se non fosse arrivato Navarro a darmi quel cazzotto vigliacco, sarebbe finita lì. Ma a Nyon, quando ci ritrovammo davanti alla Commissione disciplinare Uefa, si capì che anche lui aveva cose da metabolizzare: ammise di prendere farmaci perché aveva la mamma malata".

IL TRIPLETE - "Mou ci provò in tutti i modi: “Non te ne andare, sarà il tuo anno”. E quando mesi dopo ci incrociammo a Roma dopo la finale di Coppa Italia, mi toccò il cuore: “Se anche lo sarà, non potremo parlare di anno perfetto perché sarai mancato tu”. Ma non ho mai avuto rimpianti, giuro, e il giorno della finale di Madrid, solo a casa mia a Buenos Aires, davanti alla tv ero sereno: mi sentivo metà tifoso dell’Inter e metà ancora parte di quella squadra. Ma lasciarla era stato necessario: lì, in quel momento, mi era quasi impossibile essere “normale”. Volevo dimostrare di essere un centrale, non un terzino, ma soprattutto dovevo ritrovare l’equilibrio che prima avevo sempre avuto, da quando me n’ero andato di casa a 13 anni".

LA LITE CON MESSI - "Non è vero che in nazionale Leo soffre Maradona: nel 2010 ho visto da vicino il rapporto che avevano. Il grado di emotività dell’argentino nei confronti dell’Albiceleste è spaventoso, ma quando mette la maglia dell’Argentina la sofferenza di Leo non è di identità, è calcistica: nel Barça gioca con gente che fa parte di una scuola, prima che di un club, poi è dura doversi confrontare con un progetto che cambia in continuazione: faticherebbe anche Cristiano Ronaldo. Messi non è un mio amico, perché ne ho davvero pochi nel calcio. Con lui ho anche litigato di brutto, dopo Argentina-Colombia 0-0 in Coppa America 2011, quando le nostre facce arrivarono molto vicine si mise in mezzo Gabi Milito, che giocava con lui nel Barça: “Nico, devi farla finita tu: lui quando si incazza non si ferma”. Però porto ad esempio l’umiltà di Messi, ho conosciuto giocatori nel Genoa o nel Toro che se la tirano più di lui. Ed è il migliore che ho incrociato in campo, per la qualità ma anche la quantità di cose che fa: in 21 giocano una partita, e lui un’altra".

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Sezione: Copertina / Data: Sab 10 novembre 2018 alle 10:28 / Fonte: Gazzetta dello Sport
Autore: Alessandro Cavasinni / Twitter: @Alex_Cavasinni
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