Alla fine, il sospiro di sollievo dei quasi 50mila presenti a San Siro domenica era percettibile praticamente in tutta Milano. Succede che l’Inter vince una partita, un fatto che da oltre due mesi i tifosi nerazzurri era stato accantonato nel cassetto dei sogni quasi proibiti. L’Inter vince, supera il Bologna, e ottiene un successo molto prezioso, nel momento forse migliore per poterlo fare: conscia del risultato della Lazio travolta a Napoli dalla sinfonia degli uomini di Maurizio Sarri, stavolta la squadra nerazzurra riesce a mettere la freccia e a completare il sorpasso in terza posizione, in una lotta per i piazzamenti Champions che rischia di assumere ora i connotati di un vero e proprio ingorgo in stile tangenziale est di Milano all’ora di punta. Ma l’Inter è lì, è riuscita a tenere nonostante tutto botta pur subendo colpi di ogni genere, in campo e fuori, negli ultimi due mesi, e resta in piena corsa per l’obiettivo finale.
Tutto bene? Non proprio. Perché l’Inter vince, ma non si scrolla di dosso le proprie endemiche paure e una condizione psicologica che si discosta di poco dal livello di allarme toccato nelle ultime settimane da panico. E continua pertanto a ricadere nelle insicurezze e nelle inquietudini dei singoli che finiscono con l’inficiare sul rendimento globale: una partita che inizia come meglio non si potrebbe, col gol di Eder arrivato al termine di una bella azione globale, ma che per un tragico scherzo del destino l’Inter riesce a riaprire praticamente da sola con l’harakiri di Joao Miranda che lancia l’ex Rodrigo Palacio che segna approfittando di un Samir Handanovic ancora balbettante, non esulta sotto la Nord e incassa gli applausi del suo ex pubblico, che oltre ad omaggiare il Trenza probabilmente in questo modo dà un ulteriore segnale della propria insofferenza.
Non è un’Inter scintillante, vive di sprazzi e non riesce ad uscire dalla trappola dell’ansia. E anche quando riesce a passare definitivamente in vantaggio e oltretutto a ritrovarsi prima con un uomo poi addirittura co due uomini in più, non riesce a chiudere i conti e presta il fianco alle iniziative avversarie, un po’ per buona volontà degli uomini di Roberto Donadoni un po’ per alcune giocate frutto di autolesionismo. E tra un Marcelo Brozovic che fa irretire tutti i colori delle tribune del Meazza e al bombardamento di fischi al momento della sua uscita come peggio non potrebbe, un Ivan Perisic che forse fa vedere qualcosa di perlomeno passabile solo quando si ritrova, costretto anche da Spalletti, a giocare con un braccio da tenere fermo nemmeno fosse Franz Beckenbauer in Italia-Germania all’Azteca, un Borja Valero che fatica a centrare un passaggio oltre un certo raggio e un Matias Vecino sempre più evanescente, alla fine lo stato d’allerta rimane sempre elevato.
Ovviamente, è brutto liquidare una partita che alla fine è stata portata a casa (tre punti che scongiurano aritmeticamente il rischio, paventato più che altro da certi disfattisti a tutti i costi, di un derby col Milan in corsia di sorpasso) mettendo in evidenza solo le note negative. Luciano da Certaldo, a fine gara, si è detto ampiamente soddisfatto della prova dei suoi, specie considerato il contesto. E certo, le note positive non mancano: dal cambio di modulo che potrebbe anche aprire nuove prospettive quanto mai necessarie per sfuggire alla banalità di un canone di gioco ormai noto a tutti, a un Eder che, zitto zitto, alla fine quando viene chiamato il causa il fieno in cascina lo mette, a un Joao Cancelo che ha cancellato prontamente il battibecco col tecnico di qualche giorno fa tornando a concentrarsi su quello che gli riesce meglio. Ma è inevitabile che la giornata di domenica sarà ricordata soprattutto per due prestazioni e per due ragazzi in particolare.
Preso dalla necessità, prima ancora che dalla smania di cambiare, Spalletti ha deciso di affidarsi a Yann Karamoh, il giovanotto francese che tanto seppe esaltare in pochi minuti la platea nel corso della gara contro il Genoa ma che da quel momento ha goduto di poco spazio. Poco male, anzi il transalpino accoglie l’opportunità come fosse il momento atteso da una vita: ed eccolo, quindi, dettare legge sulla fascia di destra con le sue fiammate taglienti come una lama e ad un’abilità niente male palla al piede. Ogni tocco di palla è un’ovazione, lui sembra gasarsi ogni secondo di più e alla fine, con una zampata improvvisa, riceve palla, si accentra, si aggiusta il pallone sul piede che non è proprio il suo e fa partire una bordata sulla quale Antonio Mirante nulla può nemmeno volendo. È il momento dell’apogeo per il giovane leone nerazzurro, festeggiato per primo da un altro protagonista a suo modo inatteso. Perché di Rafa Alcantara ‘Rafinha’ le qualità erano note, ma erano noti anche i dubbi che ne accompagnavano il suo arrivo a Milano, specie quelli legati alle sue condizioni fisiche.
Ma quando vieni da un pianeta che si chiama Barcellona, e sei forgiato con gli insegnamenti di una filosofia calcistica con pochi eguali al mondo, una volta approdato in un altro ecosistema come quello interista è difficile che le tue doti non emergano in tempi rapidi. Quanto questo dettaglio possa essere salvifico o problematico, ci si può discutere come già detto a lungo: sta di fatto che il figlio d’arte ha stupito, eccome. Per la capacità di imprimere un passo differente alla squadra, per la sua sapienza nella gestione del pallone, soprattutto per come in poco tempo si sia preso la briga di dirigere le operazioni, dicendo ai compagni come e dove muoversi, anticipandone intenzioni e spendendosi anche come 'messaggero' sulle condizioni di salute. Insomma, sarà destinato forse a rimanere a Milano per qualche mese, ma ha fatto capire che questi mesi se li vuole giocare al meglio delle proprie possibilità.
In questo momento, Karamoh e Rafinha rappresentano agli occhi di tutti una piacevole ventata di novità che sta spazzando un’aria diventata troppo stantia e opprimente; ai due giocatori, in un impeto di generosità, sono stati già assegnati i gradi di ‘sub-comandanti’ della nuova Inter. Adesso, per loro, c’è l’esame più difficile, quello di resistere alla sirena San Siro: quella sirena che ammalia, quel muro umano che se dimostri di valere e di dare tutto per la maglia ti innamora e ti fa suo beniamino ma altrettanto repentinamente è capace di sfiduciarti, per non dire di ripudiarti, come vede che le cose cominciano a non girare come si vuole. San Siro colosso verticale che affascina e al tempo stesso incute timore, e che tanta gente che non ha mostrato la giusta personalità ha inghiottito più o meno colpevolmente.
Spetterà ora a loro due, a Karamoh e Rafinha, cercare di non ricadere nell’errore commesso da tanti. Ma sulla carta, ci sono i presupposti per stare tranquilli: perché il francesino, oltre alle eccezionali doti atletiche e tecniche pare avere la giusta dose di faccia tosta per farsi scivolare addosso le beghe ambientali, mentre il brasiliano, che già sul campo dà sfoggio di grande intelligenza, ha soltanto voglia di sfruttare al meglio questo periodo per rilanciare le sue quotazioni, e chissà che alla fine non si convinca di stare meglio qui in Italia che al Barça, un innamoramento come da tema del giorno. Comunque sia, anche sul piano della crescita personale, questo per loro sarà un esame importante: perché l’Inter, come disse Giovanni Trapattoni, è una centrifuga; ma chissà che tutti gli shock emotivi che indossare questa maglia comporta per loro possano solo essere energia positiva.
Autore: Christian Liotta / Twitter: @ChriLiotta396A
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