Molti mi hanno scritto chiedendo lumi e delucidazioni sull’interismo. O, meglio, su cosa si intende per interismo. E, lo scrivo con un pizzico d’orgoglio, non me lo hanno domandato solo e soltanto tifosi nerazzurri. Bene; l’interismo è una sorta di virus che venne importato dalla Svizzera. Esattamente il giorno 9 marzo 1908. I colori sono il nero e l’azzurro. Alcune fonti narrano che la scelta di questo abbinamento cromatico fu determinata dal fatto che Giorgio Muggiani, probabilmente il primo vero portatore sano, di professione pittore, aveva con sé una tavolozza con sopra, per l’appunto, soltanto i due colori succitati. Altre fonti, invece, raccontano che l’azzurro venne appositamente scelto in contrapposizione al rosso dell’altra squadra di Milano. Comunque sia andata, nerazzurro era e nerazzurro è sempre rimasto.
L’interismo non lo scegli; ti prende, ti rapisce, ti cattura, ti invade per tutta la vita. Non lo scegli; è lui che sceglie te. Questa non è un'ipotesi, è un dato di fatto. Testato sulla mia pelle. Io, malato di interismo, nato e cresciuto in una famiglia milanista, juventina, con qualche spruzzo di napoletanità. Ma interista. Da sempre. Non è semplice convivere col virus; può farti cambiare l’umore, senza che chi ti sta accanto capisca cosa stia succedendo. Puoi ridere o piangere nel corso di 90 minuti, perché l’Inter è la squadra più pazza che ci sia. Riesce nell’impresa, unica nel suo genere, di risorgere dalle proprie ceneri come l’Araba Fenice; quando tutto sembra perduto ti regala momenti di delirio sportivo, quando sei tranquillo e serafico ti fa sprofondare nell’abisso della depressione. Stiamo parlando di sport, ci tengo a sottolinearlo.
L’interismo è unico e inimitabile; hanno provato a copiarci, in ogni parte del mondo. Ma il copyright è nostro, gli altri sono goffi tentativi, mal riusciti, di emulazione. Alcuni si avvicinano all’originale ma la maggior parte ne resta lontana anni luce. Essere nerazzurri è un modo di vita, una fede che non puoi spiegare con semplici parole. Chi non è come te non lo capirebbe e ti prenderebbe per pazzo. È un modo di essere, così diverso dagli altri credo calcistici. Se hai bisogno di convincerti di essere interista, allora non sarai mai colpito dal virus. Lui arriva all’improvviso. Come scritto poc’anzi, ti sceglie. Senza se e senza ma. Senza compromessi. L’interismo ti porta a contestare e gioire nel corso di una stessa partita, perché non saprai mai cosa potrà succedere da un momento all’altro. Forse vinciamo meno di altri; ma il godimento che ne consegue è inenarrabile. Certo è che, quando vinciamo, lo facciamo proprio alla grande. Così come quando cadiamo.
Del resto, nonostante altri abbiano avuto periodi storici fortunati e ricchi di soddisfazioni, nella storia del calcio, nell’immaginario collettivo mondiale, resta la Grande Inter di Angelo Moratti come esempio di un gruppo vincente. È un dato di fatto incontestabile, non una mera invenzione. Eppure, in quegli anni, altre compagini italiche si affermavano alla ribalta internazionale. Ma la chimera, il desiderata, il mito, siamo sempre stati noi. E non è un caso se molti, moltissimi tifosi, soprattutto in Sudamerica, sono stati contagiati a loro volta dal virus. Per la cronaca stanno tutti bene. Chi gioca con la nostra maglia deve entrare in sintonia col mondo unico e totalizzante che la circonda. Non potrai appartenere a questi colori se, per prima cosa, non li senti addosso come una seconda pelle. Facchetti, Mazzola, Boninsegna, tanto per andare indietro di qualche decennio, senza arrivare al Meazza degli anni trenta passando per i Nyers o gli Skoglund degli anni cinquanta. E tanti, tantissimi altri che non basterebbero pagine e pagine per elencarli, come Kalle, Lothar, Andy. Tutti contagiati. Ancora oggi, quando parlano di Inter, vedi spuntare un bagliore, un luccichio in fondo ai loro occhi.
Il mago Herrera, Invernizzi, Bersellini, perfino Trapattoni… già, il Giovanni nazionale il virus lo ha contratto. Io ero lì quando i nostri colori furono protagonisti di quella splendida e unica cavalcata. E vedevo, lo vedevo… con la sua tuta, lui che aveva vestito la maglia dei cugini e che aveva allenato per anni la rivale di sempre. Il professionale e professionista Trapattoni. Lui era Appiano Gentile, la Pinetina. Lui si era ammalato. Di Inter. Potrò sembrare retorico, se volete un tantino populista e demagogo. Pensatelo pure. Tanto, se non siete interisti, non capirete cosa intendo dire. L’interismo, per restare ai giorni nostri, è il Capitano, il Cuchu, The Wall. I nostri eroi. Le nostre bandiere. Interismo è José Mario dos Santos Mourinho Felix da Setubal, noto al mondo intero col nomignolo di Special One. Lui non lo sa, o almeno credo non lo sappia anche se mi ha mandato gli auguri quel giorno, ma io mi sento suo fratello di latte. Ci unisce, oltre alla fede ed al virus, lo stesso giorno, mese ed anno di nascita. Forse a Lui è andata un filo meglio…
Mou e le manette, Mou e la chiamata al popolo che seguiva il suo condottiero passo dopo passo, Mou e le sue uscite, mai banali, mai retoriche. E’ la sciarpa di lana grossa nerazzurra che Roberto Mancini tiene sempre al collo. Lo so, lo so... il Mancio lo fa con ogni squadra che allena di mettersi i colori che la rappresentano. Ma non è la stessa cosa. Roberto mastica Inter, vive di Inter, si nutre di Inter. Questo, con gli altri, non lo ha mai fatto. E’ il modo di pensare del Mancio; vincente, indipendentemente da chi scende in campo. Perché Noi siamo l’Inter, e sono gli altri a doversi preoccupare. Perché, quando porti il nerazzurro addosso, devi sempre e comunque dare il massimo per il rispetto verso i milioni di tifosi che lo amano. Ora, il calcio non è uno sport assoluto, quindi non sapremo mai come sarebbe andato a finire il derby o la partita di giovedì sera con qualcun altro in panchina; però è uno sport dove la testa, l’autostima, la consapevolezza possono e devono fare la differenza. Ecco, questi ingredienti li ho visti nel secondo tempo contro gli ucraini. Sì, d’accordo, il gioco non è spumeggiante. E non so proprio come potrebbe esserlo. Roberto Mancini non è il mago Merlino e Appiano Gentile non è Camelot: non esiste bacchetta magica. Soprattutto se hai una squadra in evidente difficoltà fisica, senza i novanta minuti nelle gambe e con ataviche paure derivanti da balbettii di mazzarriana memoria. Ma la reazione con il Dnipro, quel secondo tempo giocato all’arma bianca, con Osvaldo e compagni a rincorrere tutto quello che si muoveva con la maglia bianca sul campo, è stato da Inter. Per grinta, cattiveria sportiva, determinazione. E per ora mi basta.
Giurin giuretta, potrei andare avanti per ore a raccontare cos’è l’interismo. Che non ha cure né rimedi. Non esiste medico al mondo capace di debellare quel virus che hai dentro, che ti provoca gioie immense o dolori insopportabili. Ecco; io ho quel virus. E lo porto con orgoglio. Rispettando sempre chi non la pensa come me, è un problema loro non mio. Ma fa parte della mia vita, della mia quotidianità, della mia essenza.
Amala!
Autore: Gabriele Borzillo / Twitter: @GBorzillo
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