"Alla prima situazione difficile abbiamo perso la lucidità e tutta la motivazione". Rileggendo le parole a caldo rilasciate da Cristian Chivu, a margine di Inter-Udinese 1-2, si è portati a pensare che siano ancora più gravi del primo ko stagionale in sé dei nerazzurri. Sì, perché se l’inciampo è consentito in una maratona lunga 38 partite, non si può dire altrettanto della reazione avuta da Lautaro e compagni al pareggio dei friulani, arrivato prima della mezzora di gioco. A cosa sia dovuto questo atteggiamento è difficile dirlo con poche prove a sostegno, visto che la  stagione è ancora all’alba. Le parole ‘lucidità’ e ‘motivazione’ sono vuote di significato, se non vengono accompagnate da un’analisi tecnico-tattico che tenga conto anche della componente mentale. Queste caratteristiche, legate inscindibilmente una all’altra, vanno vivisezionate per capire da dove Chivu vuole far ripartire il percorso della squadra e dove vuole dirigerlo dopo aver stravolto la filosofia professata dal suo predecessore: senza il periodo di adattamento, si è passati dal calcio relazionale per far evolvere l’azione in avanti alla verticalizzazione esasperata. Dal blocco medio-basso in fase di non possesso alla riaggressione feroce con baricentro spostato in avanti. Due mondi all’opposto che hanno spinto il tecnico romeno a parlare di ‘cantiere aperto’, nonostante il blocco squadra sia rimasto praticamente intatto. E’ più difficile e richiede più tempo, infatti, cambiare i principi di gioco che inserire dei nuovi giocatori in uno spartito già conosciuto a memoria. La rivoluzione, che non è mai partita durante il mercato estivo, Chivu la vuole progettare ad Appiano Gentile per poi farla divampare sui campi d’Italia e d’Europa. Impresa coraggiosa perché il vecchio sistemava funzionava eccome. Non ingannino gli zero titoli della passata stagione, il gruppo sa che l’epilogo amaro di due dei tre fronti non è dipeso da fattori tecnico-tattici. Al contrario di quanto successo il 31 maggio, a Monaco, dove il Paris Saint-Germain, in 90 minuti, ha palesato tutti i difetti dei nerazzurri. Difetti che erano stati mascherati bene o male nei quattro anni precedenti. L’ennesima prova che non esiste il sistema perfetto (la squadra di Luis Enrique ne ha presi 3 dal Chelsea nella finale del Mondiale per Club un mesetto più tardi) ma il punto è un altro: si può imboccare una nuova strada con gli stessi interpreti? La 'motivazione' e la 'lucidità' di cui sopra si trovano solo avendo ben chiari i concetti da esprimere in campo. Finora la squadra è apparsa ibrida, non nell’accezione in cui la vuole vedere Chivu da suo manifesto programmatico. Una squadra ancora a metà strada tra il passato e il futuro. Il tempo non c’è, anche perché il presente bussa forte. All’orizzonte c’è una delle peggiori prove possibili: la Juve, sul suo campo, sempre ostile all’Inter anche negli anni in cui la Vecchia Signora è finita dietro in classifica. Spesso dominati, i bianconeri hanno finito quasi sempre per trovare il modo di battere gli arcirivali. Negli ultimi tempi, a Torino, ha vinto solo una delle peggiori versioni dell’Inter di Inzaghi: 1-0 grazie a un rigore di Calhanoglu. Un risultato per cui ogni tifoso firmerebbe, tenendosi i problemi visti nella partita che ha preceduto la sosta. Una sconfitta giocando bene, come capitato ultimamente, sarebbe difficile da digerire da tutto l’ambiente per il distacco dalla vetta che comincerebbe a essere pesante dopo appena tre giornate. E poi restano lì, ben impresse, le dichiarazioni di Chivu: alle prime difficoltà - ha fatto intendere - la squadra va sotto. L’Inter di Simone Inzaghi gestiva i momenti, anche negativi, della partita con il dominio della palla o il controllo dello spazio al di sotto della stessa. Ora la palla viene 'cacciata' con aggressività tra i piedi degli avversari o giocata in avanti il più velocemente possibile per perforarli. Un cambio di paradigma che ha bisogno di vittorie per essere ritenuto valido.

Sezione: Editoriale / Data: Gio 11 settembre 2025 alle 00:00
Autore: Mattia Zangari / Twitter: @mattia_zangari
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