Sono andato in Curva per vedere Inter-Celtic. Non sono un tifoso che canta cori a squarciagola, ma amo sentire il calore del pubblico e la tensione vissuta dal vivo. Due signori dietro di me, anche loro gente silenziosa, hanno attirato la mia attenzione. "Male, malissimo. Ada il goal, ada il goal" oppure "bravo, per una volta l'hai azzeccata" dicevano in maniera simpatica. In seguito a un mio complimento per un buon disimpegno di D'Ambrosio, uno dei due mi ha interrotto pacatamente, con stessa la cortesia che mi aveva già colpito. "Ragazzo, tu non te lo puoi ricordare, ma io in questo stadio ho visto Brehme che su quella fascia faceva cose che D'Ambrosio nemmeno riesce a immaginare".
Rimango di stucco e faccio anche un po' la parte dell'ignorante. Certo che lo conosco Brehme. Era il tedesco arrivato con Matthäus, quello dell'Inter dei record e delle Notti magiche di Italia '90, lo sapevo. Eppure, come se mi sentissi in colpa per la "sciocchezza" detta, mi sono limitato a rispondere con le prime timide parole che mi son passate in testa. "Eh immagino, peccato non averlo visto", e poi mi son girato di nuovo verso il campo. Però, peccato davvero! Im tempi in cui di terzini di livello se ne vedono pochi, è ancora peggio non aver visto, come quei signori, dal secondo anello verde di San Siro uno dei cross di Brehme per Serena o una delle sue cavalcate sulla sinistra.
Andreas Brehme, nato ad Amburgo nel '60, era cresciuto nel Barmbek-Uhlenhorst per poi passare al Saarbücken nel 1980, squadra militante nella serie cadetta tedesca. Gli era bastata una sola stagione per mostrare di poter stare a livelli ben più alti. Fu ceduto quindi al Kaiserslautern, dove rimase fino all'estate dell''86. Entrato nel giro della Nazionale, diventò presto uno dei giocatori più appetibili del panorama europeo. Come da prassi, arrivò il Bayern. Brehme passò due stagioni nel club bavarese, vincendo un Campionato ('86-'87) e una Supercoppa di Germania nel 1987 e perdendo, nella stessa stagione, la storica finale di Coppa dei Campioni contro il Porto.
In quel Bayern c'era anche un certo Lothar Matthäus. Nel 1988 l'allora presidente nerazzurro Pellegrini decise di consegnare a Trapattoni una squadra da Scudetto. Matthäus fu acquistato per 5.6 miliardi di lire. Era un colpo sensazionale, perno di quella che sarebbe stata l'Inter dei record, capace di vincere il Campionato (allora a 18 squadre e con 2 punti per vittoria) con 58 punti. Insieme a "Der Terminator", arrivò anche Brehme. Molti pensarono che fosse stato comprato solamente per facilitare l'ambientamento del più celebre amico. Non era così. Andreas si mise sulla fascia sinistra e iniziò a macinare chilometri. In Nazionale, come nell'Inter, fu sempre un titolare inamovibile. Fu un giocatore-chiave nella spedizione tedesca ai Mondiali di Italia '90.
La Germania Ovest (l'unione tra Est e Ovest era già effettiva, ma nello sport lo fu solo dopo quel Mondiale) arrivò in finale, dove incontrò l'Argentina di Maradona. I sudamericani avevano appena eliminato l'Italia in una delle partite più amare della storia Azzurra. Nella Notte magica per eccellenza, quella da cui Goycochea aveva estromesso la nostra Nazionale a furia da miracoli, brillò inaspettatamente la stella di Brehme. Era il remake della finale di Città del Messico di quattro anni prima. All'84', col punteggio fermo sullo 0-0, si incaricò lui della battuta del dubbio rigore fischiato dal messicano Mendez. Brehme aveva un mancino educatissimo e tirava molto bene anche col piede destro, ma non era lui rigorista di quella squadra. Era però quello con più coraggio. Tirò col destro, il suo piede debole (ma nemmeno troppo), il rigore più importante della sua vita. Goycochea, che in semifinale aveva ipnotizzato Serena e Donadoni, intuì la direzione ma non ci potè arrivare. Brehme, fenomenale gregario, divenne idolo di una nazione.
Come Matthäus, rimase all'Inter fino all'estate del '92, giusto il tempo di vincere una Coppa Uefa, il primo trofeo europeo dell'Inter dai tempi del Mago Herrera. Lothar tornò in terra bavarese, mentre Brehme, fu ceduto al Real Saragozza. Non fu un addio felice quello tra l'Inter e il biondo terzino teutonico. Ma, si sa, all'Inter non siamo mai stati troppo abili nelle cessioni. In Spagna le cose non girarono e l'anno successivo Andreas tornò in patria, dove lo riaccolse il suo Kaiserslautern. Giocò altri cinque anni, alzando ancora qualche trofeo. Incise, insieme a tutta la squadra allenata da Otto Rehhagel, il proprio nome nella storia: fu la prima e unica volta in cui una squadra neopromossa riuscì a vincere un campionato (1998).
Dopo quella magica stagione abbandonò il calcio giocato. Tentò l'esperienza da allenatore senza però grandi risultati. Lo scorso anno si venne a sapere che era indebitato fino al collo. Non era stato in grado di gestire le ricchezze accumulate in una vita ai vertici del calcio mondiale. Lui che era stato simbolo di una nazione, l'unico ad aver avuto il coraggio di tirare quel rigore. Un ex calciatore tedesco, Oliver Straube, gli offrì di andare "a pulire i cessi". Anche il Kaiser Beckenbauer, suo allenatore nella Nazionale del '90, si mobilitò per dargli una mano. Non so che cosa faccia ora, ma è un peccato non averlo visto correre sulla fascia sinistra.
Davide Zanelli
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