"Perché proprio io?". La domanda chiave pronunciata da Antonio Conte nel soliloquio formato cinematografico con cui si è presentato lo scorso 31 maggio al mondo da tecnico dell'Inter ha finalmente trovato risposta. Messa in un angolo buio della memoria la storia juventina del tecnico leccese, genesi del quesito di cui sopra, la ricerca dei motivi che hanno spinto un allenatore con quel curriculum a scegliere la Beneamata ha fatto un upgrade di fronte alla stampa selezionata domenica scorsa: è lì che King Antonio, ormai spogliato dal suo passato bianconero, ha parlato da allenatore libero, da uomo che deve flirtare con la vittoria senza dover combattere i demoni del proprio passato. In queste vesti, l'ex ct della Nazionale è stato chiaro come non mai, spiegando che le decisioni più importanti della sua carriera le ha sempre prese tenendo fede a un 'indice' particolare: la percentuale minima di successo.

In ogni sua esperienza precedente – ha fatto notare Conte – ha sempre avuto la sensazione di poter trasformare quella quota più o meno infima in credibilità da titolo. La comfort zone di Torino, nella sua seconda esperienza in Serie A da allenatore, era solo ambientale, non certo tecnica: all'epoca, era il 2011, una Juve irriconoscibile sul piano della storia vinse lo scudetto battendo il Milan di Zlatan Ibrahimovic. Trovandosi a duellare per il tricolore lungo il cammino perché ai nastri di partenza era indicata al massimo come squadra da piazzamento. Ecco, il piazzamento è una parola che nel vocabolario di Conte non esiste, al massimo è la conseguenza naturale di una stagione che non ha rispettato le aspettative. Uno scenario capitato due volte nella storia di Conte, una in cinque anni alla guida di top club: oltre all'esperienza in Nazionale, che per la natura irregolare della stessa va contestualizzata rispetto al resto, Conte non ha vinto la corsa a tappe solo al secondo anno al Chelsea, portando a casa comunque un trofeo prestigioso come la Fa Cup dopo aver vinto la Premier al primo colpo: "In due anni ho dimostrato di essere un vincitore seriale, nonostante le difficoltà", aveva poi puntualizzato dopo trionfo di Wembley contro Mourinho. Al termine di un biennio che l'ha proiettato nel gotha dei manager mondiali, nella stretta cerchia dei guru della panchina su cui il Real Madrid fa un pensierino. La tentazione blanca è diventata concreta nel novembre dello scorso anno, ma è rimasta in quella dimensione proprio per un altro dogma contiano: vietato mettersi alla guida delle squadra a stagione in corso. "Penso che per un allenatore del mio livello sia meglio aspettare l’inizio di una nuova stagione e non prendere treni in corsa. Preferisco attendere giugno e poi iniziare un percorso con una nuova squadra", aveva detto Conte. Tornando poi più nello specifico sul 'no' a Florentino Perez in questi termini: "Mi sono imposto di essere lucido in una situazione del genere, ho capito che non era una situazione consona al momento che stavo attraversando e ho deciso di lasciar perdere. A volte è dura rispondere di no, le offerte sono allettanti ma non bisogna scegliere solo in base a quello".

Ecco, allora, perché proprio l'Inter? Anche qui, Antonio ci viene in soccorso, parlando così del coefficiente di difficoltà di riportare l'Inter al successo che qualcuno ha fotografato come 'l'impresa più difficile della sua vita sportiva': "In un'intervista avevo detto in che volevo la percezione di avere almeno l'1% di possibilità di vincere – ha sottolineato il tecnico interista -. Vuol dire che hai il 99% di possibilità di perdere. Però a me piace lavorare su quell'1%”. Una missione ai limiti dell'impossibile, insomma, ma che quantomeno torna ad essere una missione. A livello comunicativo, ancor prima che di campo, negli ultimi anni l'Inter è sempre partita ad agosto senza l'obbligo di mettere le mani su un trofeo. Con Conte, al netto di un mercato tutto in divenire, l'obbligo non diventerà subito prassi, ma dal giorno zero è tornata di moda la responsabilità di provare a combattere per il massimo risultato. Con tanto di manifesto programmatico scritto – neanche a dirlo – dal nuovo sergente nerazzurro: "Nessuno qui si considera un mago, ma noi lavoreremo tanto e dobbiamo farlo meglio degli altri se vogliamo avere la speranza di colmare il gap prima possibile. Il gap esiste ma non deve essere un alibi o un qualcosa che ci fa diventare arrendevoli (…) Nulla è impossibile, però dobbiamo anche sapere che per far diventare possibile l'impossibile c'è da lavorare tanto. Sul mercato, in campo, sulla mentalità. Quel che posso promettere oggi ai tifosi è che daremo tutto noi stessi per costruire qualcosa di importante".

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Sezione: Editoriale / Data: Gio 11 luglio 2019 alle 00:00
Autore: Mattia Zangari / Twitter: @mattia_zangari
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