Trentasette punti in 14 partite, delle quali dodici vinte a fronte di una sola sconfitta e di un pareggio; un bottino che vale ad inizio dicembre un primato in solitaria in classifica che guardandolo così, in termini assoluti, potrebbe anche risultare sorprendente, perché strappato a quella moloch di nome Juventus che, fra un successo e l’altro, non dava davvero l’impressione di poter mollare la presa nemmeno per sbaglio, e invece domenica scorsa è incappata nel mezzo passo falso interno contro il Sassuolo, davanti al quale questa volta l’Inter è stata pronta a mettere la freccia e ad operare il sorpasso, cosa che invece non era avvenuta alla prima occasione, quella conclusasi con il pareggio un po’ così ottenuto contro il Parma. Ma esaminandolo bene bene, forse di sorprendente in questo primato c’è davvero ben poco.

Perché questo primato è essenzialmente frutto della bontà di un percorso, parola tanto cara a mister Antonio Conte, l’uomo che con la leadership raggiunta grazie alla vittoria contro la Spal, si è portato al nono posto della graduatoria di ogni tempo dei tecnici che sono stati da soli al comando della classifica e ora mette nel mirino una colonna portante della storia dell’Inter e insieme del calcio italiano e internazionale, il leggendario Arpad Weisz. Un percorso che sin qui di dossi e di accidenti vari ne ha anche vissuti parecchi, tra difficoltà estive sul mercato superate, ad oggi si può dirlo senza timore di smentita o quasi, in maniera oltremodo brillante, e i vari stop per infortunio che stanno flagellando la rosa con una particolare predilezione per il centrocampo, dove ormai si sta assistendo a una sorta di gara a eliminazione visto anche le ultime notizie che riguardano Roberto Gagliardini, appena tornato a giocarsi una maglia da titolare e nuovamente fermato da una lesione al tendine della pianta del piede, come se la sfortuna si divertisse a cercare come bersaglio i punti più insiti e ignoti del corpo dei giocatori.

Ma nonostante questa caterva di infortuni, l’Inter è sin qui riuscita a tenere la barra assolutamente dritta, e quando ha sbandato come nel caso del secondo tempo della partita di Dortmund ha provveduto prontamente a rimettersi in carreggiata, come si è visto all’Eden Arena di Praga. Tanti sono i meriti, in primis quello di aver trovato lì davanti un duo che definire magico ormai sembra riduttivo: l’Inter ha scoperto di essere sbarcata a Lu-La Land e allora balla, balla, continua a ballare sorridente e decisa sulla sinfonia suonata dai due maestri del gol, il gigante Romelu Lukaku e il Toro scatenato Lautaro Martinez. Siamo solo a inizio dicembre eppure gli aggettivi per i due sembrano ormai esauriti: i nerazzurri hanno trovato all’improvviso il loro duo delle meraviglie, con Lukaku che una volta trovata la condizione ideale è finalmente riuscito a porre un freno alle critiche e alle malelingue e un Lautaro trasformatosi in una vera e propria iradiddio, per quantità e qualità delle reti. Due che si trovano a meraviglia, che hanno un feeling che va oltre l’aspetto del campo, un duetto dalle spalle belle grosse che possono portare senza patemi il peso di tutta la squadra.

Ma sarebbe oltremodo riduttivo limitare i meriti di questa Inter solo alla produzione dei propri alfieri dell’attacco, perché alle loro spalle c’è indubbiamente la fatica di tutto un gruppo, di quelli che lavorano per costruire gli schemi coi quali mandare a dama i suoi due cecchini, che di questi schemi comunque sono spesso e volentieri parte attiva, di certo non recitando la parte di quegli attaccanti che danno ragione a chi sostiene l’assioma secondo il quale una punta non potrà mai essere un grande allenatore, perché il suo ruolo lo porta a dare le spalle al gioco. È un’Inter che si basa su un principio prima di ogni altra cosa: quello del lavoro, altro tasto sul quale Conte ama battere anche con una certa insistenza. Quel lavoro che, a suo dire, sta rendendo entusiasti a livelli stratosferici i tifosi, al punto tale che nel corso della gara contro la Spal sono stati scanditi eloquenti cori con tanto di invito a saltare con la Curva Nord, una cosa che l’ultima volta, probabilmente, si era vista con José Mourinho.

Lui non accoglie l’invito, si limita a rivolgere convinti applausi ai sostenitori, e adduce tanto entusiasmo nei suoi confronti alla soddisfazione per il lavoro, e si torna sempre lì, compiuto in quasi un semestre di gestione. Ma non possono esserci solo il lavoro e i risultati alla base di questo affetto sfociato così fragorosamente per un uomo che nemmeno fino a troppo tempo fa rimaneva un portabandiera storico della storica rivale in bianconero: Conte ha ormai assunto in pieno il ruolo di leader, di capo carismatico, di quell’allenatore, insomma, con le doti essenziali per portare successi in casa nerazzurra come da ormai otto anni ormai non si vedono, come la storia insegna. E in attesa di capire come superare quel conflitto interiore che alberga nella maggior parte di loro tra la razionalità per un primato sì importante ma ancora troppo prematuro e l’istinto che porterebbe a celebrare cotanto traguardo che, seppur effimero, vale comunque come un segnale nei confronti di un campionato che altrimenti sarebbe già segnato prima ancora dell’inizio dell’anno nuovo, il tifo nerazzurro ha ormai una certezza assoluta nella figura di Conte, vedendo in lui l’uomo giusto per trascinare questo gruppo oltre ogni ostacolo e soprattutto oltre quei limiti psicologici che negli ultimi anni hanno irrimediabilmente segnato le stagioni interiste.

Alzi la mano, infatti, chi non sta vivendo con un minimo di apprensione questo arrivo del mese di dicembre, quello dove nella storia recentissima dell’Inter si sono vissute alcune situazioni tra il tragico e il grottesco, che hanno finito col mandare a ramengo o quasi quanto di buono si era fatto fino a quel momento. Probabilmente, a fare questa domanda solo un anno addietro, di braccia al cielo ce ne sarebbero state a iosa, mentre oggi, forse, qualcuno in più tende a vivere la situazione con più serenità. Proprio per la fiducia che nutre nel mister e nelle sue caratteristiche, nel suo vivere ogni gara come la più importante, nell’insistere sulla voglia di alzare costantemente l’asticella e di non lasciar passare nemmeno il pensiero del minimo rilassamento.

Buon per lui e per l’Inter, quindi, che in questa settimana il calendario riservi altri due match ad alto coefficiente di difficoltà: quello di venerdì contro la Roma in campionato, e soprattutto quello di martedì, quando a San Siro arriverà il Barcellona per la gara che può valere gran parte della stagione, l’ultima del girone di Champions League, quella da vincere per garantirsi il passaggio agli ottavi con tutto quello che ne conseguirebbe economicamente e non solo.  Due incontri decisivi, come siamo abituati ormai a sentir dire da inizio stagione dalla classica grancassa mediatica. Ma chi pensa di metter pressione declinando ogni sfida come un esame di maturità, si metta in testa che altro non fa il gioco dell’Inter e di Conte: una squadra che deve avere sempre fame, che ha bisogno costantemente di vivere sempre in trance agonistica, di affrontare ogni partita come un esame decisivo.

Battere la Roma, una delle squadre più in forma del momento, per scavare un ulteriore solco tra il vertice della classifica e il resto del plotone; respingere il Barça sul campo, prima ancora che sul mercato per i presunti assalti alla propria punta di diamante argentina; questi i prossimi, importanti obiettivi scritti sulla lavagna. ‘Gli esami non finiscono mai’, recitava la commedia del mitico Eduardo De Filippo; e gli esami per questa Inter non possono e non devono finire mai, perché vivere ogni gara come se fosse l’ultima è la strada maestra per sentirsi vivi. E continuare a pensare sempre più in grande.

Sezione: Editoriale / Data: Mer 04 dicembre 2019 alle 00:00
Autore: Christian Liotta / Twitter: @ChriLiotta396A
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