Lo confesso, senza nemmeno troppi giri di parole. Senza quella falsa e ipocrita sensazione di modestia tipica di chi è abituato a perdere. Senza il maniavantismo che è uno sport assai popolare e per molti aspetti pure condivisibile, ma lasciamolo da parte un pochino. Senza nascondersi dietro un dito, che magari dirlo porta pure sfiga.
Sissignori, Roberto Mancini ha pronunciato la parolina magica: scudetto. E non toccate ferro o qualsiasi altra cosa a portata di mano. L’ha detta, l’ha pronunciata, l’ha ripetuta. Ovvio, i detrattori del tecnico jesino sono già lì, pronti con le obiezioni; e, ma l’aveva detto anche quando è arrivato a novembre e guarda che fine abbiamo fatto; e, invece di parlare che impari ad allenare; e, meno chiacchiere e più fatti. E il campionario potrebbe proseguire per righe e righe, il concetto non cambierebbe e i detrattori del Mancio continuerebbero, giustamente dal loro punto di vista, una crociata senza speranza.
È comunque corretto: Roberto Mancini si presentò a novembre al popolo del cielo e della notte accompagnato da dichiarazioni roboanti. Alle quali, sono convinto, credeva fermamente. Salvo rendersi conto, cammin facendo, di quanto avesse sopravvalutato il potenziale umano a disposizione. Sia chiaro, questa non è una difesa d’ufficio dell’allenatore, non ne ha bisogno; perché il Mancio ha sbagliato, allora, esponendosi oltre ogni ragionevole dubbio. E oltre ogni ragionevole dubbio il giudizio è uno e uno solo: colpevole. Ma quante attenuanti però. Gente che correva poco e male o, ancor peggio, molto e molto male; professionisti pallonari incapaci di fare una diagonale che anche nei tornei estivi oratoriali vedi, e qui le colpe specifiche sono dei giocatori, o di chi li ha scelti; nemmeno uno con piedi educati in grado di ribaltare l’azione. Abituati da diciotto mesi di primo non prenderle. O, meglio, acquistati nel tempo con la nomea di presunti crac e rivelatisi poi dei comuni, comunissimi mortali. Che in alcune occasioni ho avuto pure la tentazione di mettermi gli scarpini e scendere in campo; avrei fatto probabilmente meglio. E, comunque, di certo avrei provocato meno danni.
Ma lasciamo stare il passato, gettiamolo davvero dietro le spalle. Anche perché, diciamocelo pure sottovoce, è un passato pesante, sotto tutti i punti di vista. Squadra balbettante, interpreti che scendevano in campo con la paura della propria ombra, schemi conosciuti: UNO! Perché solo e soltanto in quel modo si poteva giocare, il resto non esisteva. Il calcio non era più classe, estro, grinta, cattiveria, agonismo. Il calcio era diventato; mettiamoci cinque-tre-due (a volte si poteva sostituire il due con uno e uno, non è la stessa cosa vi assicuro). Tutti fermi lì, a difendere il loro lurido pezzettino di terra, attenti a non allargarsi di un centimetro, che chissà cosa sarebbe potuto accadere. Ma questa non deve e non vuole essere una critica specifica: è solo un modo diverso dal mio di leggere e vivere il calcio. Che Mancini ha, ritornando a colpe vere o presunte, la presunta colpa di non aver stravolto radicalmente nei suoi sette mesi di permanenza sulla panchina nerazzurra. Perché il dato di fatto è che la squadra ha lasciato intravvedere qualcosina di meglio, ma sempre troppo poco rispetto alle aspettative e del tecnico e della piazza.
Vediamo il bicchiere mezzo pieno di questa ultima disgraziata stagione; di quelle che le metti in uno scatolone in cantina seppellito da miliardi di altri scatoloni con la speranza che nessuno mai lo ritrovi. Ha se non altro permesso al club e alla Società di valutare cosa ci sarebbe stato da fare per rendere l’Inter una formazione in grado di competere per le posizioni altolocate della classifica, quelle che ti permettono di partecipare alla competizioni europee che contano; possibilmente tralasciando l’Europa di seconda categoria, l’unica che abbiamo frequentato da qualche anno a questa parte. Il risultato, condito da risatine e ammiccamenti vari, sono state le parole di Mancini di pochi giorni fa, anche se sembra davvero passato un secolo: voglio otto/nove giocatori nuovi con i quali rifondare e dai quali ricominciare.
Ridi ridi, Roberto pian pianino sta riuscendo nell’impresa; quella di convincere il Presidente ad aprire i cordoni della borsa per cacciare gli euro necessari ai vari acquisti; ora io non so cosa l’allenatore abbia detto al Presidente, nessuno lo sa, ma sta di fatto che quella famosa riunione al Melià immediatamente dopo la penosa sconfitta casalinga con la Juventus, ha sancito una specie di patto tra Società e staff tecnico; noi troviamo i soldi, e va tra le altre cose sottolineata la creatività finanziaria nerazzurra sulla quale andrebbe davvero fatto uno studio, altro che esperti di bilanci, bilancini e bilancetti, voi ci mettete impegno e capacità. Perché, lo ricordo sempre ma repetita iuvant, il bistrattato Roberto Mancini, sicuramente un sopravvalutato, ha vinto soltanto tredici trofei da quando ha iniziato l’avventura in panchina. Tutti di culo, sia chiaro. Io sono sincero; se tu vinci una media di un trofeo all’anno sei bravo e basta. E non mi interessa come li hai vinti; all’ultimo minuto, all’ultimo secondo. Sull’almanacco del calcio non sta scritto, c’è soltanto il nome di chi vince. Così chiudiamo la questione una volta per tutte.
Insomma, la conferenza stampa di Roberto l’ho ascoltata con attenzione e con piacere, non con quella apatia che aveva contraddistinto il mio interesse verso chi lo aveva preceduto. Poi non ho soppesato le parole del tecnico una per una, aspettando solo l’occasione per rinfacciargliele come purtroppo faranno in tanti, anche tra gli stessi tifosi interisti. Ho preso atto di una energia rinnovata, di un sano modo di essere spacconi. Che ci appartiene. Perché questo noi siamo: da sempre e per sempre. Spacconi. Bauscia.
Ce lo siamo scordati da un pezzo. Torniamo alle origini.
Buona domenica a Voi. Amatela, sempre!
Autore: Gabriele Borzillo / Twitter: @GBorzillo
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