Esattamente dieci anni fa, l'Inter alzava la Champions League nel cielo di Madrid e festeggiava un Triplete leggendario. Alla Gazzetta dello Sport, José Mourinho ricorda quei giorni entrati nella storia del calcio mondiale partendo dal suo approdo a Milano.
Lei arrivò all’Inter ridendo e facendo ridere («Non sono pirla») e se ne andò piangendo e facendo piangere, abbracciato a Materazzi: più vittorie o più sentimenti?
"Il meglio in carriera l’ho dato dove ero a casa, dove sentivo le emozioni del mio gruppo, dove sono stato al duecento per cento con il mio cuore: più una persona che un allenatore. Per questo a Madrid ero più felice di vivere la felicità degli altri - da Moratti all’ultimo dei magazzinieri - della mia stessa felicità: io una Champions l’avevo già vinta. Mi è capitato di pensare prima a me che agli altri: all’Inter, mai. Questo succede in una famiglia: quando diventi padre, capisci che c’è qualcuno più importate di te, e passi al secondo posto".
Urlò di più a Bergamo, nell’intervallo di Kiev o dopo Catania?
"A Catania ero squalificato, li aspettai in pullman e avevo la testa un po’ più fredda: dissi tutto il giorno dopo... A Kiev era più calda: “Possiamo essere eliminati, ma non così”. E dopo “così”, furono cinque minuti molto violenti. Però poi abbiamo cambiato il chip e insieme siamo andati fino alla fine. E comunque il giorno più difficile della stagione è stato dopo il pareggio di Firenze".
Più svolta a Kiev o a Londra?
"Per la Champions, Kiev: all’85’ eravamo fuori, se cambi il tuo destino in 4’ è sempre un momento chiave. Ma è stata fondamentale anche Roma, il 5 maggio: il sogno era la Champions, lo scudetto era un obbligo, vincere la Coppa Italia fu come dirci “E una, passiamo alla seconda”. Mi piace rivedere quella partita con uno dei miei assistenti, Giovanni Cerra, malato della Roma: piange ancora...".
E quale delle tre “finali” invece ha sofferto di più?
"Quella di Coppa Italia non la volevo giocare: l’inno della Roma prima della partita, arrivai a provocare “Fermate la musica o ce ne andiamo”. A Siena avevo paura: sei giorni dopo c’era la grande finale, temevo non giocassero quella partita come una finale. Zero a zero al 45’, la Roma vinceva 2-0, nello spogliatoio un caldo tremendo, non capivo come aiutare la squadra a svoltare tatticamente. Fu molto dura, e non finiva più. Avevo detto: “Un giorno mi piacerebbe vincere un campionato all’ultima”. Quel giorno mi dissi: “Mai più”".
È esatto dire che la Champions dell’Inter nasce a Manchester, nel marzo 2009?
"Sì perché quel giorno ci siamo detti con chiarezza che la qualità dell’Inter bastava per vincere lo scudetto, non la Champions. Che dovevamo cambiare anche tatticamente. I giocatori dentro lo spogliatoio erano tristi, fuori nessuno di noi piangeva: io, Moratti, Branca e Oriali eravamo già a parlare di linea difensiva più alta, di giocatori adatti ad almeno due sistemi di gioco, dei profili che ci servivano, di chi poteva restare".
E a fine luglio, a Boston, avrebbe detto addio a Ibrahimovic.
"Ma il casino successe prima, a Pasadena, il giorno dell’amichevole contro il Chelsea. Tormentone da giorni: “Ibra va al Barcellona, non va al Barcellona”, lui da superprofessionista quale è giocò 45’, ma poi nello spogliatoio disse: “Vado, devo vincere la Champions”. I miei assistenti italiani erano morti - “Senza di lui sarà impossibile vincere” - i compagni non volevano perderlo. Ero preoccupato anche io, ma mi uscì così: “Magari tu vai e la vinciamo noi”. Ero stato un po’ pazzo, ma nello spogliatoio cambiò l’atmosfera. Poi dissi a Branca: “Se lui vuole andare a Barcellona, cerchiamo di prendere Eto’o”. Lui e Milito tatticamente potevano dare una diversità alla squadra".
L’altra diversità la diede Sneijder?
"Diversità tattica. Serviva qualcuno che legasse il centrocampo a due attaccanti dalla mobilità tremenda, lui era perfetto. A un certo punto non ci speravo più, ma la prima opzione era lui e Branca mi disse: “Non mollare, facciamo insieme pressione su Moratti”. Da quel giorno chiamai Moratti tutti i giorni: “Serve Wes, Wes, Wes”".
Se dovesse dire quale fu la sua Inter perfetta: quella del derby vinto 4-0?
"Vicina alla perfezione: gol pazzeschi, controllo totale, il Milan, quel Milan, distrutto anche psicologicamente. Ma la partita simbolo della mia Inter è l’ultima: perché l’abbiamo vinta prima di giocarla e non è normale che in una finale di Champions tutti, non solo l’allenatore, sentano così forte di avere tutto sotto controllo".
Quell’Inter fu, assieme al Real, la squadra più lontana dall’etichetta del Mourinho difensivista?
"La partita iconica del Mourinho difensivo è stata quella del Camp Nou, ma quel Barcellona aveva perso 3-1 a San Siro e noi ci eravamo guadagnati il diritto di andare a giocare da loro come volevamo. E se Pandev non si fosse infortunato nel riscaldamento, avremmo giocato con Pandev, Sneijder, Eto’o e Milito".
Al Camp Nou trovò il tempo di andare da Guardiola a dirgli qualcosa.
"Quando Busquets cadde quasi tramortito io ero in diagonale fra la nostra panchina, la loro e il punto dove Thiago Motta venne espulso. Con la coda dell’occhio vedo la panchina del Barcellona che festeggia come se avessero già vinto, Guardiola che chiama Ibra per parlare di tattica: tattica in 11 contro 10... Gli dissi solo: “Non fare festa, questa partita non è finita”".
Perché non tornò a Milano con la squadra?
"Perché se fossi tornato, con la squadra intorno e i tifosi che avrebbero cantato “José resta con noi”, forse non sarei più andato via. Io non avevo già firmato con il Real prima della finale: chi ha detto che qualcuno del Real venne nel nostro hotel prima della finale disse una cazzata. Prima della finale successe solo che scoprii lo scatolone con le maglie celebrative e scappai per non vederle. Io volevo andare al Real: mi voleva già l’anno prima, andai a casa di Moratti a dirglielo e lui mi fermò, “Non andare”. Al Real avevo già detto no quando ero al Chelsea, al Real non puoi dire no tre volte. Oggi forse potrei stare 4-5-6 anni nello stesso club, ma allora volevo essere il primo - e sono ancora l’unico, fra gli allenatori - ad aver vinto il titolo nazionale in Inghilterra, Italia e Spagna. Allora mi dissi: “Sto qui due giorni, firmo il contratto e vado a Milano quando non posso più tornare indietro”".
Dunque fu solo per vincere, non per il rumore dei nemici...
"Cento per cento ambizione. Il rumore dei nemici, che poi piangevano, era bellissimo: era più forte il tremore del rumore, e se ci pensa bene è la stessa cosa: quando c’è rumore è perché c’è paura".
Per un po’ di tempo e più di una volta, lasciata l’Inter, ha detto: «Un giorno tornerò». Perché ha smesso di dirlo?
"Lo so perché mi sta facendo questa domanda. Ma io non sono pirla...".
Autore: Alessandro Cavasinni / Twitter: @Alex_Cavasinni
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