"Venire da un paese così piccolo e lontano, poter in qualche modo fare un po’ di storia è molto importante". Inizia così la lunga intervista di David Suazo rilasciata ai canali ufficiali dell'Inter e andata in onda su DAZN per la nuova puntata di Inter Fùtbol Club, spazio dedicato agli ex nerazzurri sudamericani, alla quale l'honduregno è ospite.
Che soprannome ti piace di più? La pantera o re David?
“Mi ci sto ancora abituando. Ovviamente il primo di tutti è stato Rey David che mi hanno dato in Honduras. Un ex allenatore nella mia prima partita ufficiale in cui giocai, ero molto giovane, avevo 19 anni, ho fatto un gol e lui ha detto: ‘è nato un nuovo re”. Poi ‘la Pantera’ è stato qui in Italia, quando ero al Cagliari e poi si è confermato all’Inter”.
Hai giocato in un ambiente molto caldo come quello di Cagliari, sentire sulla pelle dei 80.000 tifosi nerazzurri. Ma anche tu vieni da un posto in cui il calcio si vive in maniera molto passionale. Dove è nato questo rapporto con il calcio?
"La verità è che nel nostro paese il calcio ti dà la possibilità di uscire dalla catena sociale che ti segna. Grazie a Dio ho avuto l’opportunità di giocare e questo ti permette di cambiare paese, di cambiare vita e la vita della tua famiglia. Penso che da quando sono nato ho giocato a calcio, la mia famiglia ha giocato a calcio. Vengo da una famiglia di otto persone e giocano tutti a calcio. Tutti i miei fratelli, io sono il penultimo di sette e giochiamo a calcio. Ce l’hanno inculcato e così è stato. Con forza, sacrificio, sin dall’inizio. Per noi come si gioca è una lotta costante, è sempre stato così. Ho avuto l’opportunità di venire in Europa ed è stato ancora più difficile perché quando sono arrivato a Cagliari con ambienti e costumi completamenti differenti, è stato difficile all’inizio. Ma negli otto anni che ho passato lì mi hanno aiutato a crescere, a imparare la lingua, a prepararmi per arrivare all’Inter".
All’inizio risaltavano alcune delle tue tante qualità, quella della potenza per attaccare lo spazio, il dribbling, la relazione con il gol. Si nasce o è una cosa che si costruisce con il tempo?
"Nel calcio si dice che per iniziare “o ce l’hai o non puoi” e ci sono alcune cose che hai perché le senti dentro. Una delle cose che mi ha regalato mia madre è la velocità. E quella fa parte del pacchetto, è innata. Tutto il resto, l’aspetto tecnico, la capacità di stare in campo e di fare sempre gol, perché 80.000 persone in uno stadio, 20.000 in un altro, quando ti fischiano o ti applaudono è totalmente diverso. Quindi quello sì, si può imparare, ti abitui a convivere e migliori. Si migliora se hai allenatori giusti che ti aiutano e ti danno consigli oltre ai grandi compagni che ti aiutano a crescere nelle avversità, che ho avuto la fortuna di incontrare".
Indossare la maglia della Nazionale specie al Mondiale, in un momento in cui il Paese non attraversava un buon periodo, è stato motivo di orgoglio maggiore?
"L’Honduras è un paese piccolo ma come tutti i paesi del Sudamerica, i problemi economici, politici e sociali ci sono sempre stati. Uno si aspetta sempre che le cose possano migliorare per tutti questi popoli, in questo caso quello honduregno. Quando ci siamo qualificati al Mondiale è stato come respirare un po’. Quella fu un’occasione per respirare ed è successo dopo 28 anni dall’ultima volta, dopo la qualificazione dell’82. Ventotto anni per tornare a giocare un mondiale. Le verità è questa, la gente era euforica. È stato molto bello e ne sono orgoglioso di aver fatto parte di quest’impresa".
I tuoi primi gol sono arrivati contro i rivali più sentiti. Si festeggiano il doppio?
"Si urlano il doppio perché è la tua ‘faceta’. Io avevo venti anni e quando hai 20 anni è come il primo gol che segni in Serie A. Come il primo gol che segni da professionista, ti battezzano come un grande del Paese e smetti di essere ragazzo. Realizzare qui due gol mi ha segnato il futuro. Con tutte le situazioni che viviamo, per i tifosi e la gente, il calcio ti riempie e si vive in una maniera talmente forte che abbiamo potuto aiutare la gente a credere in qualcosa di positivo".
Sei arrivato in Europa a 19 anni, come fu?
"Arrivare in un un mondo talmente tanto diverso e nuovo è stato difficile. Mi ha aiutato il fatto che c’erano tanti compagni sudamericani. Poter parlare in spagnolo e farmi dare da loro indicazioni è stato importante perché all’inizio a livello di gioco è un calcio totalmente diverso rispetto a quello a cui ero abituato. La mia esperienza era poca, e arrivavo in un paese tatticamente superiore a tutti gli altri. Arrivare in un’epoca in cui potevano entrare solo tre stranieri… immagina. Per me fu molto forte. Il cibo, i costumi, le abitudini… Sono stati i primi sei mesi, perché ritengo che abbia avuto bisogno di sei mesi per adattarmi, molto difficili. Ma poi ci sono riuscito con l’aiuto dei compagni, soprattutto uruguaiani e del presidente che all’epoca mi disse ‘non preoccuparti’, il primo anno devi adattarti".
Sei mesi di adattamento sono pochi…
"Sì, dico sei mesi perché sono stati i primi passi. Cominci a dire le prime parole, conoscere le abitudini, l’alimentazione e poi cominci a capire cosa ti chiede l’allenatore per inserirti perché è questa la vera difficoltà. È un ambiente totalmente diverso, arrivo a 19 anni e m ritrova con linea a 3, linea a 4… Non ero abituato. Venivo che gioca andando in avanti istintivamente, quindi il rigore tattico, base del calcio italiano fa la differenza. E per uno che viene da fuori è la grande difficoltà per tutti quelli che vengono da fuori".
Vorresti allenare la Nazionale?
"Sì, ovviamente. Quando qualcuno si incammina nella carriera da allenatore lo spera. Spero di poter portare qualcosa in futuro alla mia Nazionale e al popolo honduregno. È una cosa che vorrei potesse succedere un giorno".
A proposito di allenatori, mi vengono in mente Tabarez, Mancini, Mourinho… Che ricordi hai?
"Sono tre nomi vincenti. Ognuno ha le sue caratteristiche anche Tabarez, il Maestro, è stato il mio primo allenatore al Cagliari, mi ha aiutato tantissimo perché trovarti in un paese nuovo e trovare un allenatore che può spiegarti bene è molto bello e ho grande riconoscenza nei suoi confronti. Dopo Mancini che mi voleva a tutti i costi all’Inter e Mourinho. Sono due vincenti che hanno dimostrato che il calcio si può vedere diversamente ma che la voglia di vincere, la voglia di dimostrare che sei il numero uno ti contagiano, e queste sono cose molto belle e ringrazio l’Inter per questa opportunità".
Se oggi potessi dire qualcosa a Suazo diciannovenne cosa gli diresti?
"Sei stato molto bravo, complimenti per tutto quello che hai fatto. Sono molto grato a tutte le persone che mi hanno aiutato a raggiungere i miei obiettivi".
Autore: Egle Patanè / Twitter: @eglevicious23
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