Missione compiuta: bottino pieno, ma quanta, troppa, sofferenza. Tutto ok? No, purtroppo. L’aspetto meramente numerico cozza prepotentemente con un’Inter tutt’altro che trascendentale. Partendo dal presupposto che nel calcio il risultato non è importante ma semplicemente fondamentale, la nona versione dell'Inter di campionato regredisce inspiegabilmente a livello collettivo, oltre naturalmente a dover registrare gli ennesimi (caso o negligenza?) infortuni, con Cambiasso e Julio Cesar finiti ai box anzitempo, e in forte dubbio per la delicata trasferta nella tana del Tottenham di martedì prossimo. Il terreno di gioco, in condizioni imbarazzanti, per l’ennesima occasione si è dimostrato avverso e non degno di un palcoscenico così prestigioso e pulsante di storicità. L’avvio del match di venerdì sera aveva definito sin troppo celermente il canovaccio e lo spartito che sarebbe poi seguito per tutto l’arco dei novanta minuti: un Genoa, limitato dalle troppe assenze nel reparto avanzato, che ha sfruttato l’occasione per ritornare a una linearità insolita per caratteristiche congenite, soprattutto quando il campo amico impone ritmo e spregiudicatezza, e dall’altra parte un’Inter falcidiata nel reparto nevralgico del campo che non ha fatto molto più di una normale amministrazione svagata per portare a casa l’intera posta in palio. Risultato sin troppo amichevole nei confronti dei nerazzurri.
L’infortunio del Cuchu e l’ingresso del generoso Muntari hanno poi aiutato ad amplificare il disagio delle assenze di Thiago Motta e Stankovic, cardini imprescindibili nel progetto dell’ex manager del Liverpool, uomini d’ordine capaci di regalare linearità e geometrie e contribuire a cementare quella “Linea Maginot”, stasera soltanto agognata. La buona sorte, mai così invocata, ha permesso con un tiro velleitario scoccato dal redivivo Muntari, coadiuvato dalla "benedetta" collaborazione del portoghese Eduardo, di sbancare Genova e ripartire alla volta di Milano con il morale a metà tra soddisfazione per il risultato acquisito e preoccupazione per una squadra che in ogni partita registra infortuni muscolari che decapitano inevitabilmente il progetto di un Rafa Benitez alla continua ricerca di una identità mai definita.
Una squadra apatica, quella presentatasi al “Ferraris”, lontana parente, sopratutto a livello psicologico, dell'Inter del Triplete e della migliore Inter di questo primo scorcio di stagione. L’impressione netta è che comunque le gambe spesso non supportino il pensiero, egoismi permettendo. Da non sottovalutare anche gli ingombranti retaggi del recente passato difficilmente dissolvibili in tempi brevi. L’aspetto preoccupante riguarda principalmente la scarsa propensione alla sofferenza che rendeva l’Inter del 2010/2011 un collante empatico difficilmente scardinabile. Quell'agonismo feroce, marchio di fabbrica della casa, che in talune serata di luna storta si rendeva necessario per sopperire alla scarsa vena creativa e realizzativi dei vari demiurghi e punteri che compongono la ormai sempre più esigua rosa nerazzurra, è inspiegabilmente venuto meno.
Se c’è un appunto da muovere nei confronti del prof di Madrid, questi riguarda principalmente la scarsa propensione nel variare un modulo (il 4-2-3-1) entrato prepotentemente nelle vittorie europee dell’ultima Champions League ma che in Italia, patria del tatticismo esasperato, aveva permesso alla Roma di rosicchiare 14 punti in poco più di 2 mesi nell’ultimo rocambolesco finale di stagione. Un integralismo a onor del vero da imputare anche alla povertà di alternative. Un dogma però non necessariamente condivisibile, l’estetica non deve soverchiare la pragmaticità: reparti scollacciati, pericoli continui creati da rinvii alla “viva il parroco” della retroguardia di Gasperini in cui i pretoriani dell’area nerazzurra hanno mostrato evidenti segnali di appannamento, scarsa propensione al sacrificio di alcuni, sintomi che dovrebbero far riflettere pesantemente: prevenire è meglio che curare.
Naturalmente l’analisi estremamente negativa è proporzionata alle aspettative e qualità indiscutibili che accompagnano i reali valori, mai così inespressi, dei campioni d’Europa. Dopo le critiche doverose e inevitabili, da segnalare anche gli aspetti positivi della vittoria a domicilio: controsorpasso virtuale nei confronti degli “amabili” cugini, secondo posto solitario in classifica alle spalle della sorprendente Lazio, pressione rimandata al mittente in attesa che la sfida di San Siro tra le due nemiche nobili del calcio italiano ragguagli e approfondisca aspettative, realtà vigenti e proiezioni future. Per i campioni d’Europa mai come in questo caso è fondamentale navigare a vista, serrare le fila in attesa di tempi più fruttuosi, limitare i danni come il più umile dei gregari, rimanere a ruota, respirare e studiare meticolosamente le mosse altrui, per poi salire prepotentemente in cattedra e sferrare l’attacco frontale con le armi più congeniali, che nell’ordine recitano in rigoroso ordine temporale: recupero infortunati, celeri chiarimenti tattici, intervento specifico nella prossima sessione di mercato invernale. Senza soluzioni di continuità, la storia passata e recente dell’Inter non ammette pause o ripensamenti, a buon intenditor…
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