Ci vuole molto più coraggio ad allenarla l'Inter, piuttosto che a mollarla. Ci vuole molto più coraggio a continuare ad allenarla dopo una sconfitta dolorosa, piuttosto che ad abbandonarla. Scappare del resto, è sempre più facile: qualunque situazione la vita e lo sport ti mettano davanti, la fuga rappresenta la scorciatoia immediata che impedisce di fare i conti con difficoltà e dolori, che impedisce di affrontarli e risolverli davvero. E figuriamoci quanto coraggio ci vuole a continuare ad allenarla dopo aver paventato, ipotizzato, neanche troppo nascosto un addio che da venerdì sera e praticamente fino alla conclusione del vertice tra il tecnico e Steven Zhang, in molti, quasi tutti, davano per certo.

Così non è e non è stato. Antonio Conte rimane l'allenatore dell'Inter. Per molti, tifosi, opinionisti, commentatori, giornalisti, non è buona notizia. E già si pensa a cosa succederà al prossimo sfogo, a cosa gli avrà promesso la dirigenza per convincerlo, alle critiche dopo la prima sconfitta e via dicendo. La verità, forse, è che questa sia scelta la strada più logica, pur nelle tante difficoltà create dalle parole dell'allenatore subito dopo la sconfitta in finale col Siviglia. Perché la verità, almeno la mia, è che un addio sarebbe stato, forse e semplicemente, una stupidaggine, una sconfitta peggiore di quella rimediata a Colonia. Perché avrebbe cancellato un percorso fatto, un pezzo di strada, né semplice e nemmeno scontato, che ha portato a fare progressi che non sono bastati per diventare vincenti ma che, indubbiamente e indiscutibilmente, hanno riportato l'Inter su livelli di competitività e credibilità che si attendevano da un decennio.

La differenza tra la vittoria e la sconfitta, a un certo punto, ha rappresento anche la sostanziale differenza e distanza tra Conte e l'Inter. Perché la sconfitta è come un passaggio esistenziale dell'interismo, come una sorta di tappa obbligata, di rito di iniziazione: è un dolore necessario sì, una cicatrice che non puoi non avere addosso. Altrimenti non puoi capire l'Inter, non puoi dire di sapere cosa sia, cosa significhi e cosa rappresenti. Conte deve iniziare ad accettare, valutare e comprendere la cultura della sconfitta: perdere non vuol dire alzarsi da tavola infuriati e gettare all'aria la tovaglia e tutto quello che c'è sopra. Perdere è una delle infinite possibilità della vita e, anzi, è una delle maggiori probabilità della vita. Figuriamoci dello sport.

Andarsene avrebbe voluto dire non solo lasciare il percorso incompiuto ma anche dare ragione ai suoi più grandi accusatori, quelli che non gli perdonano il passato da bandiera bianconera, quelli che non hanno mai creduto alla sua dedizione e alla sua professionalità. Perché il solo modo per dare senso a questa stagione e spegnere le critiche che alcuni non smetteranno mai di muovergli contro, è, e sarà, portare con le sue mani un trofeo nella bacheca dell'Inter. Fare altrimenti avrebbe voluto dire dare ragione ai suoi detrattori. Ai detrattori dell'Inter e di Conte.

Il comunicato ufficiale con cui l'Inter ha annunciato che le cose rimangono come sono è una cattiva notizia: per gli avversari dell'Inter. Certo, adesso ognuno avrà la sua opinione: chi si era già fatto ingolosire dall'idea Allegri, chi griderà al "tanto rumore per nulla" o persino alla buffonata, chi dirà di averlo detto e chi invece è stato clamorosamente smentito. Parlerà, come sempre, il campo. Ma se l'Inter non voleva fare passi indietro e presentarsi ai nastri di partenza del prossimo campionato quanto mai vicina alla Juve (perché da dieci anni a questa parte l'Inter non è mai stata così vicina alla Juve), questa era la soluzione migliore. Qualcuno ci ha sperato che la mollasse così l'Inter, alla prima difficoltà. Che se ne andasse senza aver sollevato trofei e soprattutto senza aver colmato quel gap. E quegli stessi che ci speravano ora temono più di quanto non abbiano fatto negli ultimi anni.

La sconfitta è dolorosa ma bisogna saperci convivere con quel dolore e soprattutto imparare a farlo, a navigarci, a non farsi trascinare giù fino al momento in cui sei pronto per darti la spinta con le gambe e riuscire finalmente a risalire. Conte è stato ed è a volte prigioniero delle sue stesse ossessioni che prevedono solo e soltanto la vittoria e la fuga, o la voglia di farlo, di fronte anche solo all'idea della sconfitta. Ma convivere col dolore a volte è persino terapeutico.

Creare una mentalità vincente non significa non contemplare la sconfitta: significa imparare da quella sconfitta, imprimersi a fuoco il senso e la lezione di quella sconfitta e alimentare il sacro fuoco che ti porterà a cancellarla. Con una vittoria, la prossima, al prossimo tentativo. Non riprovarci sarebbe stato l'errore più grande e anche il vero autogol. Se servono dei cambiamenti, che vengano fatti: l'Inter all'interno del suo organigramma societario e all'interno della sua rosa, Conte all'interno della sua testa e tra quei demoni che non accettano le sconfitte. Potrebbe bastare, potrebbe servire. Perché le guerre non si vincono nel giro di un anno ma richiedono tempo, fatica e soprattutto l'estrema convinzione di chi le combatte, anche contro tutti. E soprattutto richiedono la capacità di sopportare il dolore inferto da certe ferite e aver voglia di ricucirle insieme.

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Sezione: Editoriale / Data: Mer 26 agosto 2020 alle 00:00
Autore: Giulia Bassi / Twitter: @giulay85
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