Appuntamento su Radio Nerazzurra con 'INTER-viste', il podcast dedicato a chi ha vissuto sulla propria pelle i colori nerazzurri. Stavolta l'intervistato è Beppe Bergomi, l'ex capitano nerazzurro che proprio oggi compie 57 anni. L'Inter raccontata dallo Zio.

Partiamo un po' dalle origini: qual è stato il tuo primo ricordo che hai avuto da quando eri bambino legato ai colori nerazzurri.
"Il mio primo ricordo è stato lo scudetto del ‘70. Sì perché io ero ancora in quella fase dove non sapevi se tenere una squadra o l'altra. E quello scudetto lì, in rimonta mi è rimasto dentro, ed è il mio primo ricordo dell’Inter in assoluto".

Chi è stato, per Bergomi, il tuo capitano nella storia dell'Inter?
"Per me il capitano Giacinto Facchetti. Io sono legato tantissimo a questa persona perché mi ha insegnato tanto. Mi ha fatto capire quali erano i valori veri dello sport. Poi parleremo anche dei valori dell'Inter ed è una persona straordinaria. Ed è stato anche quello che quando io ho smesso di giocare ha cercato in tutte le maniere di riportarmi dentro la società, anche se per varie motivazioni non siamo andati alla conclusione. E quindi gli sarò sempre grato per tutta la vita. C'è mancato troppo presto. Se devo pensare a un capitano, anche perché ce ne sono stati tanti come Graziano Bene. Poi ho giocato con Zanetti, però Giacinto Facchetti può essere definito l'emblema del capitano quello con la C maiuscola se proprio vogliamo fare un esempio da mettere sui manuali per chi vuole fare il calciatore. Assolutamente un esempio in assoluto".

E tu che hai vestito la fascia da capitano che cosa vuol dire essere un capitano di una squadra di calcio?
"Io ho avuto un allenatore che mi diceva, fin da bambino, nel settore giovanile che il capitano non vuol dire scambiare il gagliardetto con quell'altro. Capitano vuol dire essere un esempio, far capire ai ragazzi giovani, agli stranieri che arrivano all'interno dello spogliatoio, quali sono i valori di questa squadra, il senso di appartenenza. Io non ero uno che parlava molto anche se con gli anni sono migliorato andando a lavorare in televisione. Però durante la mia carriera non parlavo. Per me io volevo essere un esempio positivo. E per me essere un esempio positivo voleva dire arrivare prima in campo e andare via per ultimo trascinando il gruppo. Questo secondo me era l'esempio e far capire il senso di attaccamento e il senso di appartenenza a una maglia. Secondo me, questo è quello che deve trasmettere un capitano".

Non essendo stato un capitano molto loquace che strategia utilizzavi, appunto, per trasmettere questi valori a un ragazzo che arrivava dalle giovanili oppure come dicevi tu anche da uno straniero che si affacciava per la prima volta la Serie A.
"Io ho avuto come compagno di squadra, quando veramente ero ragazzino che non avevo ancora la patente che andavo ad Appiano Gentile, Carletto Muraro. Io arrivavo da Settala quindi prendevo il pullman, poi prendevo il tram e poi con lui ci davamo appuntamento in un porto e lui mi prendeva in macchina mi portava ad Appiano Gentile e poi portava giù. Quindi io da lui ho imparato tanto perché dopo quando ho avuto dei ragazzi del settore giovanile ho cercato di fare la stessa cosa che lui faceva con me. Infatti quando i ragazzi avevano bisogno di un passaggio per rientrare prima perché magari dovevano studiare, gli davo volentieri sempre un passaggio in modo tale da ero molto vicino a questi ragazzi. Perché so cosa vuol dire stare in un settore giovanile,  crescere. Perché poi c'è da studiare. Tante cose: perché poi non sai quale sarà l'evoluzione della tua carriera ma bisogna starli vicino e farli capire tante cose. Quindi questo secondo me è stato il primo insegnamento. Un altro esempio è proprio Dennis Bergkamp. La società mi disse di star vicino a questo ragazzo.  Pian piano iniziammo a uscire io e  lui, insieme a mia moglie e sua moglie e  andavamo un po’ in giro per fargli capire la lingua e la cultura del nostro Paese. Per fare una battuta: alla fine ha imparato l'italiano la moglie e lui non è riuscito. Mi ricordo anche un lavoro con Matthias Sammer che faceva fatica a inserirsi. Lui arrivava da Stoccarda. Poi io penso che all'interno della squadra c'è un capitano ma ci sono tante leadership. Capita che ci sia quello emotivo e quello che è un po’ più sanguigno. Ci sono tanti personaggi che secondo me devono aiutare soprattutto gli stranieri che arrivano da noi".

So che è difficile trovare una risposta a questa domanda ma voglio chiederti assolutamente qual è stato il tuo momento più bello vissuto con la maglia dell'Inter.
"I momenti belli sono tanti poi nel calcio come nella vita, soprattutto nel calcio, si perde maggiormente rispetto a vincere. Però se devo trovare un momento. A me piace ricordare una partita più che una vittoria. Una partita che abbiamo vinto 4-0 con la Juventus dove per me era la prima volta che giocavo da libero. Abbiamo fatto una partita straordinaria e quindi è quella. Me la ricordo bene. Sarebbe scontato raccontarti della Coppa UEFA oppure del campionato, della Coppa Italia  o dell'esordio in campionato che ho fatto il 22 febbraio dell'81. Ma non so perché quando mi fanno questa domanda mi rimane sempre in testa questa partita qua. Quella dei gol di Rummenigge, di Collovati di Riccardo Ferri che loro due erano i due marcatori e io facevo il libero. Credo mi sia rimasta dentro anche perché la temevo. Forse perché ero abituato a fare il marcatore ma se ad una partita così importante ti mettono a fare il libero un po di apprensione c’è anche se poi andò tutto alla grande".

La tua carriera è stata lunghissima vissuta interamente con la maglia dell'Inter ma se volessi trovare una figura o un allenatore di riferimento che ti ha guidato e che ti ha lasciato il segno più indelebile quale sarebbe?
"Gigi Simoni. Perché quando è arrivato mi ha guardato e mi ha detto che a lui non interessava che io avessi 35-36 anni. Per lui 18 o 36 anni erano tutti uguali. Questo è il campo chi merita gioca. Mai nessuno mi aveva fatto un discorso del generale. Nel senso che prima all'inizio davi per scontato perché giocavo ed ero in nazionale quindi non ci pensavo. Verso fine carriera inizi a farti due domande, ma quell’anno feci una stagione straordinaria: abbiamo vinto la Coppa Uefa abbiamo perso uno scudetto che tutti sappiamo come e in questo momento non è neanche bello andare oltre. Sono andato a fare il mio quarto Mondiale in Francia e lo devo a Gigi Simoni perché mi ha dato veramente grande fiducia e non ha voluto dar credito a quello che riportava la stampa e quindi questo mi ha dato fiducia e poi il posto me lo sono guadagnato sul campo. Quindi Gigi Simoni sarà sempre nel mio cuore".

Ultimissima curiosità con la domanda più importante all'interno di questo podcast: che cos'è l'Inter e che cosa vuol dire essere interisti. E da parte di una voce come quella Beppe Bergomi mi aspetto una risposta di un certo tipo.
"Allora ogni squadra ha il proprio Dna e il dna dell'Inter è diverso da tutti gli altri. Non voglio dire nel migliore o peggiore ma diverso. E noi sappiamo cosa vuol dire indossare quella maglia, quei colori. Parlo dei giocatori, staff, società  ma soprattutto i tifosi che si identificano in questa maglia. Quindi sappiamo che per ottenere qualcosa dobbiamo fare tanta fatica, tanto sacrificio per raggiungere un obiettivo e alla fine quando lo facciamo, lo facciamo veramente con tanto orgoglio. E quindi per me è sempre stato questo indossare questa maglia. Per me è sempre stato proprio una seconda pelle che mi ha dato tantissimo. Ecco quindi i valori che trasmette la maglia dell'Inter sono unici".

Sezione: Copertina / Data: Mar 22 dicembre 2020 alle 11:38
Autore: Alessandro Cavasinni / Twitter: @Alex_Cavasinni
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