È stato davvero un brutto colpo, ieri mattina, svegliarsi e ricevere una notizia che magari chissà, qualcuno poteva anche asserire, prima o poi sarebbe arrivata; ma vedersela arrivare all’improvviso, in una mattinata che preannunciava tepori da risveglio di primavera, è comunque una botta tremenda. Ci ha lasciati, a 75 anni, Franco Battiato, universalmente definito ‘maestro’ e a ragion assolutamente veduta. L’Italia perde un grandissimo uomo prima ancora che un grandissimo artista, capace di attraversare una marea di generi musicali riuscendo sempre a mettere il suo timbro, la sua sconfinata cultura deducibile dalla qualità e dalla profondità delle parole e delle citazioni dei suoi versi immortali. Ma Battiato non era solo musica: era anche arte, cinema, era portabandiera della Sicilia e dei siciliani. Insomma, una perdita incommensurabile da qualunque prospettiva la si voglia vedere.
È altresì inutile negare che, come può intuire chi segue il nostro lavoro da anni, abbiamo perso anche quella che per noi era una fonte di ispirazione assoluta: quante volte, negli anni, abbiamo fatto ricorso alle sue parole, chiamando a raccolta i tifosi nerazzurri per fare fronte comune agli attacchi mediatici arrivati anche in passato al grido di Up Patriots To Arms o accogliendo l’amarissima eliminazione dell’Italia dai Mondiali di Russia 2018 provando ad analizzare debolezze e fragilità di un sistema sportivo dai piedi d’argilla asserendo che, oltre che povero calcio, era anche logico parlare, sportivamente parlando, di Povera Patria. E duole anche perché a Battiato il calcio piaceva: ha giocato a calcio in passato, in un’intervista alla Gazzetta dello Sport del 1986 rievocata da Rivista Undici si definì un difensore d’anticipo alla Giacinto Facchetti; sempre alla Rosea raccontò di un autogol incredibile segnato in un match con l’Acireale e che il calcio, nello specifico uno scontro con un palo, gli lasciò in eredità l’inconfondibile naso pronunciato. Calcio, infine, sport capace di trasmettergli “sensazioni metafisiche”, ammise sempre lui stesso a Gianni Minà.
Siamo ormai al tramonto di questo campionato, campionato che dopo undici anni ha visto tornare sul trono di regina d’Italia l’Inter di Antonio Conte, capace di interrompere nove anni di dominio incontrastato della Juventus che ha visto interrompersi quel ciclo iniziato proprio con alla guida colui che era parte dei capitani coraggiosi e che ora molti sostenitori bianconeri vedono alla stregua dei furbi contrabbandieri macedoni. Sorprendente come ascoltare citazioni di Eraclito e Callimaco come incipit e chiusura di un brano rock, non tanto per la vittoria in sé visto che in tanti ad inizio stagione parlavano di rosa più forte del campionato, quanto per l’impressionante continuità di prestazioni fornita da un certo punto in avanti. Semmai, facevano sensazione le difficoltà iniziali, culminate con gli strani giorni della dolorosa eliminazione dalla Champions League.
È stato però a quel punto che Antonio Conte e i suoi hanno capito che l’evoluzione sociale di un gioco non serve a una squadra se non è preceduta da un’evoluzione di pensiero (tattico): allora, via la maschera del Gasperonte e ritorno ad un maggiore pragmatismo contiano, e fu lì che l’Inter riuscì a trovare l’alba dentro l’imbrunire. Senza dare troppo peso ai falsi miti di progresso che volevano la squadra facilitata dall’affrontare un unico impegno rispetto alle concorrenti, vantaggio che poi sarebbe evaporato in poco tempo, l’Inter ha macinato risultati su risultati con una continuità mostruosa fino al raggiungimento dell’agognato traguardo finale, festeggiato stranamente prima in poltrona aspettando il risultato di Sassuolo-Atalanta per poi lasciarsi andare prima con bandiere fuori dalle macchine oppure dal terrazzo della sede a salutare i sostenitori festanti, poi in campo dopo la partita contro la Sampdoria con un grande ballo finale, muovendosi sulla destra poi sulla sinistra e danzando come le balinesi nei giorni di festa. Domenica ci sarà la celebrazione finale, con la consegna della Coppa dello Scudetto da alzare a San Siro, dove sugli spalti non ci sarà nessun grande esodo di tifosi e magari a fare compagnia ai nerazzurri trionfatori ci saranno voli imprevedibili ed ascese velocissime degli uccelli che spesso gravitano dentro e intorno al Meazza.
È stato lo scudetto di tanti protagonisti. Il primo da citare è indubbiamente Romelu Lukaku, colui che si è incoronato il re di Milano ma che ormai per tutti i tifosi interisti è indubbiamente il re del mondo, che però non tiene prigioniero il cuore di nessuno ma causa seri tormenti all’anima di chi è deputato di difenderlo; poi c’è Achraf Hakimi, che spesso e volentieri ha fatto tornare a tutti la voglia di vivere ad un’altra velocità; e poi ancora Lautaro Martinez, che, come da sua stessa ammissione, avrebbe potuto cedere al coro delle sirene di Barcellona ma alla fine per l’Inter ha provato un sentimiento nuevo. E poi in ordine sparso Nicolò Barella, Alessandro Bastoni, Milan Skriniar, Marcelo Brozovic… Ma in cima alla lista, non può che esserci il plasmatore di questo gruppo meraviglioso: Antonio Conte, colui che Beppe Marotta è andato a cercare perché stava bene con lui già dai tempi della Juve. Conte che lui e l'Inter sembravano due mondi lontanissimi ma che poi alla fine è stato colto da una stranezza d’amore verso questi colori, e che, dopo un anno di assestamento, è riuscito ad assecondare l’animale che si porta dentro, quello che non si arrende mai e soprattutto non vuole mai perdere.
Antonio Conte intorno al quale adesso si concentrano voci, speranze, ansie intorno al futuro. La situazione è chiara ormai da tempo: in questo mondo di figli delle stelle e pronipoti di sua maestà il denaro, di denaro in questo momento se ne trova davvero pochissimo nelle casse di tutti i club, e diverse società stanno cercando di correre ai ripari chiedendo agevolazioni, dilazioni, concessioni varie. Una situazione che attanaglia in particolar modo l’Inter, dove Steven Zhang aspetta con ansia i prossimi giorni per accogliere il fatidico finanziamento che possa permettere di evitare che dal giorno alla notte Atlantide sparisca e torna nell’acqua. Ma la voglia di avere sicurezza inevitabilmente monta, tra i tifosi come tra gli addetti ai lavori, in primis lo stesso Conte che ora che ha messo in moto una macchina vincente, non intende certo fermarsi qui ma è spaventato dalla prospettiva di un futuro illuminato solo dalla luce fioca di candele e lampade a petrolio.
Ormai, l’attesa per il faccia a faccia tra Zhang e Conte, che presumibilmente non si vedranno per prendere un tè al Café de la Paix, è enorme. Ancora una volta, passa da questi delicati tete-a-tete il futuro dell’Inter. Un’Inter i cui tifosi non fanno in tempo a vedere il mondo blu che in poco tempo si colora di brutte sfumature di grigio. Ma mai come questa volta, è necessario che si faccia chiarezza su tutto, e che a Conte, ai giocatori e a tutto l’ambiente venga dato un centro di gravità permanente che non faccia cambiare idea sulle cose e sulla (diri)gente, di cui tutti hanno bisogno ora più che mai. Perché Conte ormai vede l’Inter come un essere speciale e vuole averne cura, nessuno vuole che questa sia solo una stagione di passaggio e i tifosi vogliono tornare a credere che l’Inter possa evitare l'ombra e godersi la (nuova) luce.
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Autore: Christian Liotta / Twitter: @ChriLiotta396A
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