Ci risiamo. Perché noi interisti siamo così, criticoni a prescindere; non importa ciò che è stato, non importa imparare dagli errori ed orrori del passato, non importa guardare al futuro cercando il lato positivo. O propositivo.
Questo non va, l’altro non è capace, l’altro ancora non può sedersi sulla panchina; poco interessa il palmarès che lo accompagna, poco interessa se il poveraccio (non dal punto di vista economico, sia chiaro) di turno pensa al modo ed alla maniera di riportare nuovamente questa Società e questa squadra nei ruoli consoni al nome ed al blasone che competono.
Noi interisti siamo impazienti, umorali, irrazionali; ma anche innamorati pazzamente dei nostri colori. Perché l’Inter è femmina e non ci sono mezze misure. Non puoi amarla un pochino, volerle bene, provare una simpatia. Ti entra nel cuore e nelle vene, è una passione profonda ed inspiegabile. Una storia d’amore totalizzante e dove c’è passione, l’ho già scritta questa cosa, non può esserci ragione.
Inutile e superfluo il resto; non siamo inquadrati, non siamo proni sempre e comunque al volere societario, non siamo silenti di fronte alle chiacchiere. Non ci bastano le rassicurazioni o le dichiarazione di facciata. Siamo innamorati, appassionati, non semplicemente affezionati. Inutile e superfluo cercare di blandirci con le moine; vogliamo i fatti.
Ecco, per me questi siamo. E, forse, proprio questo è il nostro maggior difetto.
Ci sono momenti, nella storia di ogni club calcistico, nei quali la razionalità deve obbligatoriamente, anche se solo per poco tempo, prendere il sopravvento. Nei quali anche le parole, le chiacchiere, le dichiarazioni vanno ascoltate con attenzione. E seguite. Senza criticare a prescindere, senza cercare sempre e soltanto di trovare il lato sbagliato delle cose. Senza dire…lo sapevo…lo immaginavo…me lo aspettavo. In ogni cosa è molto più facile scoprire gli errori che vedere i miglioramenti. E non importa se lo sapevate, lo immaginavate o ve lo aspettavate.
Negli ultimi anni c’è stato un avvicendamento compulsivo di allenatori sulla panchina nerazzurra: senza la benché minima soluzione di continuità. Il dopo Mourinho è stato gestito, diciamocelo, tra il male ed il molto male. Non conosco le ragioni dei fallimenti veri o presunti di chi si è alternato cercando in qualche modo di insegnare o proporre calcio. Ma, è un dato di fatto e pertanto non contestabile, nell’ultimo quinquennio si è riusciti a cambiarne ben sette, Mancini compreso. E non è un bel record.
Ma, bando al solito luogo comune, allenare l’Inter non è da tutti. O per tutti. Milano è una piazza che ti tagliuzza a fettine, ti tritura pian pianino. Qui, sulla panchina che inaugurò il mitico Virgilio Fossati nel 1908, hanno toppato grandi nomi; senza stare a fare una lista fine a se stessa.
Possiamo tranquillamente affermarlo, il 2010 è l’anno che fa da spartiacque tra una sorta di continuità, ritrovata con Roberto Mancini prima e con José poi, ed il nulla cosmico. Nonostante, dopo il Vate di Setubal, si sia cercato di mettere una pezza con Rafa Benitez, famoso dalle nostre parti per aver scippato nel 2005 una Champions ai cugini in quel di Istanbul; allenatore di spessore (niente battute sul fisico per cortesia), con un palmarès da grande. Ma, evidentemente, non convinceva e non ha mai convinto la vecchia dirigenza. Che, come ama ripetere spesso il signore di Madrid, per lui aveva speso zero. Certo, Rafa ci mise del suo con un atteggiamento che, raccontano i bene informati, mal si sposava con le esigenze di quella squadra e di quell’ambiente. Quale che siano state le vere o presunte ragioni, i veri o presunti torti, Benitez fu esonerato subito dopo la conquista dell’Intercontinentale. Ed arrivò Leonardo: todo amor, toda beleza. Il mercato venne fatto, spesi oltre 35 milioni per il duo Pazzini/Ranocchia, la squadra balbettante di inizio stagione si trasformò inspiegabilmente in una specie di invincibile armata e si arrivò ad un pelo dal sorpasso sul Milan. Peccato che, nel momento topico, tutto si squagliò come neve al sole con inopinata sconfitta nel derby ed eliminazione imbarazzante nei quarti di CL.
Il brasiliano inventatosi allenatore ci lasciò in braghe di tela durante l’estate, preferendo il denaro parigino al progetto nostrano. Aiuto. Così, di punto in bianco, o almeno questa è la leggenda che gira. Quindi? Quindi, tra lo stupore generale, si scelse un neofita ad alti livelli. Un signore che bene aveva svolto il suo ruolo fino a quel momento, ma sempre su panchine della cadetteria o con squadre di medio livello nella serie A italica. Gasperini fu esautorato senza nessun rimpianto da piazza e dirigenza; voleva proporre una nuova maniera di giocare, difesa a tre, esterni alti, gran movimento. La risposta della squadra fu nel famoso gesto di Cambiasso a Novara: a quattro, dietro mettiamoci a quattro. Così Moratti chiamò al capezzale il “normalizzatore” Claudio Ranieri da Roma. Uomo buono per tutte le stagioni; chiaramente assunto a tempo determinato. Nel frattempo la primavera nerazzurra vinceva la Next Generation Series, sfornando ottime prestazioni. Al punto da convincere (mah!) Moratti a scegliere tale Andrea Stramaccioni, trentaseienne sconosciuto dalle belle speranze, come capo allenatore per la stagione successiva. Andrea fa discretamente bene, fino ad un certo punto. Poi, ancora oggi vorrei che qualcuno ce lo spiegasse, si rompe chiunque; persino se un giocatore dell’Inter si chinava per raccogliere una cartaccia da gettare nel cestino si stirava. Prodigi della preparazione, che Stramaccioni non curò direttamente.
Lasciato alle spalle il binomio romano, il prescelto lo conosciamo tutti. Mazzarri Walter da San Vincenzo, una Coppa Italia nel palmarès, fatto più che altro da promozioni e salvezze. Cifra dell’ingaggio astronomica, strappato alla concorrenza della Roma. Non sto a scrivere su Mazzarri, quel che sentivo l’ho ampiamente spiegato nelle puntate precedenti. Comunque sia, la realtà è che la Società cede alle pressioni della piazza, giuste o sbagliate non sta a me dirlo, e lo accantona a fine novembre dopo l’ennesima opaca prestazione accompagnata dal disamore di gran parte della tifoseria. No, non è decisamente lui l’uomo su cui puntare per il rilancio del marchio Inter nel mondo. Troppo legato a calci d’angolo e situazioni metereologiche.
Arriva Mancini. Meglio, ritorna Mancini. Sette anni dopo un burrascoso addio. Perché Mancini conosce l’ambiente, è noto in tutto il mondo, ha vinto la Premier ed ha allenato ad alti livelli. La tifoseria sembra gradire. Ma, ad oggi, qualche balbettio qua e là inizia a minare le sicurezze iniziali. E via, comincia l’ennesima caccia alle streghe. Interessa poco se Roberto non ha la squadra che desidera, se non ha avuto tempo di fare preparazione estiva ed insegnare il suo modo di giocare, la sua idea di calcio, agli uomini che lui ha scelto. No. Perché, dopo quattro mesi, dovevamo essere primi in classifica.
Beh, ma lui aveva detto che saremmo andati in CL. Beh, ma sbaglia spesso. Beh, ma adesso ci racconta che l’anno prossimo lotteremo per lo scudetto.
Si, avete ragione. Roberto Mancini è un po’ spaccone e, a volte, un po’ arrogante. E fa degli errori, ogni tanto anche degli orrori. A Milano si definirebbe Bauscia. Come l’Inter, squadra di bauscioni per eccellenza.
Io me lo tengo. Pure stretto. Oppure… avanti il prossimo; così, giusto per ricominciare da zero. Per l’ennesima volta. Che tanto avremo da dire anche di lui a Natale.
Buon inizio settimana a Voi.
Autore: Gabriele Borzillo / Twitter: @GBorzillo
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