'Le grandi squadre vincono anche quando non meritano'. Quanta solfa, quanti luoghi comuni che vagano nell’etere del linguaggio giornalistico. Eppure, con buona approssimazione, questo cliché possiede un suo diritto all’esistenza, soprattutto se applicato a quelle formazioni che di solito provano a fare la partita, linea alta sulla linea di centrocampo e via, pedalare, palla a terra e piglio garibaldino. L’Inter di Spalletti appartiene senz’altro a quest’ultima categoria, per quanto si è visto nelle prime uscite estive e, se ciò non bastasse, per il credito immenso che in questo senso ha guadagnato il tecnico di Certaldo nelle sue precedenti esperienze professionali. Ieri sera, si diceva, l’inedito atteggiamento nerazzurro era atteso alla controprova di un’altra squadra mai votata a buttare il pallone, plasmata proprio dalle articolate e pignole convinzioni di Spalletti e poi ereditata da un Di Francesco anch’egli assai incline a inseguire l’estetica.

QUANDO MENO TE L’ASPETTI - Eccola, infatti: l’Inter parte pienamente immersa nella nuova filosofia, provando a parlare lo stesso linguaggio della Roma, con quel centrocampo raccolto da cui far sbucare l’imbucata vincente al momento opportuno. Avvio nel segno della qualità, proprio come con la Fiorentina.  È per questo che, quando arriva il gol dei giallorossi, molto sembra perduto. Diciamocela tutta, non siamo più abituati a un’Inter che sappia eseguire spartiti differenti nei diversi momenti della gara. I nerazzurri, come avveniva in tempi piuttosto recenti, piombano infatti nel già noto stato di confusione tendente alla paranoia, con la Roma che spadroneggia nella fase centrale della gara, a cavallo dei due tempi, e testa a cannonate la solidità delle porte dell’Olimpico, colpendo tre legni e suggerendo ai più come il 2-0 fosse dietro l’angolo. L’Inter si riprende col gol, medicina sempre efficace e saporita, e riprende a respirare a pieni polmoni col consueto copione, avvicinando in maniera quasi iperbolica i tre in mezzo (decisivo, a questo proposito, l’ingresso di Joao Mario) e tirando fuori da questo epicentro di creatività quella palla cieca che di volta in volta solletica le galoppate degli esterni. Reazione di rabbia, reazione di chi vince possedendo, e non subendo, i momenti della partita; reazione, però, che non dimentica la logica, le istruzioni e il progetto tattico mandato a memoria alla vigilia. Correggiamo il luogo comune: la grande squadra vince anche senza merito, ma soprattutto vince se non perde la sua identità, neppure nella tempesta.

L'ULTIMA SENTENZA - E poi, c’è quell’uomo davanti. Icardi è l’ultima frontiera dell’attitudine tutta nerazzurra alla polemica e all’estremismo. Ammettiamo che il ragazzo ci piace, dunque stentiamo a parlarne, per timore di cadere nella parzialità. Sulle sue spalle, oltre alle stucchevoli polemiche su una compagna sempre in prima linea, c’è una fascia di capitano forse prematura, un bagaglio tecnico di prim’ordine accoppiato a uno stile di gioco anni ’90, il tutto condito dalla faccia di bronzo non indifferente con cui il ragazzo replica al vento contrario. Non interessa a quest’articolo sciogliere il dilemma sul capitano Icardi: il capitano dell’Inter è legittimato dai trofei che alza, il giudizio è dunque sospeso. Ma come si gira, Icardi? Qual è la sua velocità di pensiero, oltre che di gambe? Come diavolo fa a materializzarsi dal nulla proprio in mezzo ai centrali avversari? Parliamo di calcio, dunque, ed elogiamo un centravanti tecnico, opportunista, sibilante; parliamo di uomini, perché no, e sottolineiamo come questo VIP ventiquattrenne raramente la faccia fuori dal vaso, e ancor più raramente venga meno alla sua professionalità. Lì davanti, Icardi è spesso solo (speriamo in futuro lo sia sempre meno, dal momento che all’Inter non bastano i suoi gol), e altrettanto spesso è letale, è l’ultima sentenza. Solitario y final, come titolava Osvaldo Soriano,  scrittore argentino che col calcio e la sua letterarietà dialogava ogni giorno. Nel suo romanzo, Soriano recupera dal collega Chandler la figura di Philip Marlowe, proverbiale detective privato, calandola in una Hollywood maleodorante e grottesca, nella quale il nostro eroe appare solo, nel tramonto dell’esistenza, triste e tutto sommato inutile. Icardi, però, sorride: segna, batte la mano sullo stemma, che è sul cuore, strizza l’occhio all’Interismo, gode della gioia dei suoi tifosi. A differenza del Marlowe triste, solitario y final, il ragazzo pare oltremodo spensierato e leggero nel convertire in rete ogni pallone, indipendentemente da quanto questo possa pesare sul suo piede. In più, adesso, la meritata gioia della Nazionale. Alegre, solitario y final, dunque, e tanto basti. A Spalletti l’ultima accortezza, perché Icardi migliori nello stile e nella collaborazione, proprio come sta facendo tutta l’Inter. Perché un cambio di filosofia che guardi al bello merita sempre tempo, cura e prudenza, tanto più se tiene lontano il malumore dei lunatici con la forza dei risultati. Prudenza! Quella che tende alla bellezza è sempre una strada ostica, prendiamoci con gioia gli insperati tre punti.

Sezione: Copertina / Data: Dom 27 agosto 2017 alle 08:30
Autore: Antonello Mastronardi / Twitter: @f_antomas
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