Gianni Vivabene incontrò Federico Dimarco nei Pulcini C dell'Inter: per entrambi fu la prima volta in nerazzurro. “Federico era arrivato l’inverno precedente dalla Calvairate, società affiliata all’Inter. Aveva 6 anni - ricorda a SportWeek l'ex tecnico del mancino interista -. Si era presentato a un provino per i nati nel ’97 insieme a un amichetto, Andrea Carini. Scoprimmo in fretta che in realtà erano come fratelli. In quel gruppetto c’erano Federico Bonazzoli, oggi alla Salernitana, e Michele Di Gregorio, il portiere del Monza in B”.
“Era il classico bambino di strada, quello con la voglia di pallone addosso - continua a raccontare Vivabene -. Allegria contagiosa, sprizzava davvero gioia da ogni poro. Milanese di Porta Romana, dove il papà aveva un banchetto di frutta e verdura. Famiglia splendida, che negli anni ha fatto la differenza permettendogli di arrivare dove è ora. Federico ha fatto la gavetta, ma quella vera: Ascoli, Empoli, Sion in Svizzera, Parma, Verona… I suoi lo hanno sempre sostenuto in ogni scelta”. Ma perché un ragazzo così forte ha dovuto compiere un giro tanto largo per tornare da dove aveva iniziato? “Perché l’Inter ha ritenuto che avesse bisogno di maturare, e, risultati alla mano, direi che la scelta è stata indovinata”.
“La prima volta che vedo Federico, penso: ‘Ma quanto è piccolo questo qui’. Lui e il suo amico Carini. Noi allenatori dicevamo che, mettendoli uno sopra all’altro, ne facevano uno” dice invece un altro ex allenatore di Dimarco, Giuliano Rusca. “All’Inter Federico aveva iniziato quasi da punta, fui io a spostarlo più indietro: aveva forza, corsa, forse non era così abile per giocare davanti, e poi di mancini ce ne sono sempre così pochi… Sopperiva al deficit fisico rispetto ai coetanei con un’intelligenza calcistica sopra la media. Lui e Bonazzoli, altro mancino, si facevano la guerra per chi dovesse tirare punizioni e rigori. Quei Pulcini A erano una schiacciasassi: una volta vincemmo 40-0 contro il Pergocrema. Finimmo sui giornali e dovetti spiegare che non c’era stata nessuna volontà di umiliare l’avversario, ma che a quei tempi la partita era divisa in tre tempi e tutti i ragazzini dovevano giocare e ovviamente volevano mettersi in mostra”.
“Era il classico bambino di strada, quello con la voglia di pallone addosso - continua a raccontare Vivabene -. Allegria contagiosa, sprizzava davvero gioia da ogni poro. Milanese di Porta Romana, dove il papà aveva un banchetto di frutta e verdura. Famiglia splendida, che negli anni ha fatto la differenza permettendogli di arrivare dove è ora. Federico ha fatto la gavetta, ma quella vera: Ascoli, Empoli, Sion in Svizzera, Parma, Verona… I suoi lo hanno sempre sostenuto in ogni scelta”. Ma perché un ragazzo così forte ha dovuto compiere un giro tanto largo per tornare da dove aveva iniziato? “Perché l’Inter ha ritenuto che avesse bisogno di maturare, e, risultati alla mano, direi che la scelta è stata indovinata”.
“La prima volta che vedo Federico, penso: ‘Ma quanto è piccolo questo qui’. Lui e il suo amico Carini. Noi allenatori dicevamo che, mettendoli uno sopra all’altro, ne facevano uno” dice invece un altro ex allenatore di Dimarco, Giuliano Rusca. “All’Inter Federico aveva iniziato quasi da punta, fui io a spostarlo più indietro: aveva forza, corsa, forse non era così abile per giocare davanti, e poi di mancini ce ne sono sempre così pochi… Sopperiva al deficit fisico rispetto ai coetanei con un’intelligenza calcistica sopra la media. Lui e Bonazzoli, altro mancino, si facevano la guerra per chi dovesse tirare punizioni e rigori. Quei Pulcini A erano una schiacciasassi: una volta vincemmo 40-0 contro il Pergocrema. Finimmo sui giornali e dovetti spiegare che non c’era stata nessuna volontà di umiliare l’avversario, ma che a quei tempi la partita era divisa in tre tempi e tutti i ragazzini dovevano giocare e ovviamente volevano mettersi in mostra”.
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