"ll fatto che l’Inter sia stata la prima a tagliare il traguardo tra le capoliste dei grandi campionati europei finisce di descrivere la dimensione dominante della sua impresa". A scriverlo, su Repubblica, è il giornalista Paolo Condò che paragona il trionfo nerazzurro a una vittoria prima del limite su un ring di pugilato: "L’Inter ha vinto per ko. Se fosse un pugile ci resterebbe di lei la potenza del pugno: Mike Tyson, che li sbatteva a terra più volte fino alla resa, piuttosto di Mohammad Ali, cui bastava un gancio dopo averli lavorati ai fianchi con la sua scherma. Verrebbe da dire che questo era l’unico modo per interrompere la dittatura juventina — nel week-end in cui il ciclo si chiude è doveroso un omaggio ai suoi favolosi anni 10 — se non fosse che in questo torneo i bianconeri non sono mai riusciti a competere sul serio".

Senza rivali credibili, secondo Condò, "l’Inter ha corso contro se stessa e il muro psicologico di una generazione che ha visto vincere sempre le stesse squadre: nella stagione 2011-12, la prima del ciclo juventino, Bastoni aveva 12 anni, Hakimi 13, Lautaro e Barella 14, Lukaku era un ragazzo di talento appena reclutato dal Chelsea ed Eriksen il piccolo principe successore di Sneijder all’Ajax. Gli unici già adulti erano Handanovic, che infatti in stagione è stato accusato di essere vecchio, e Vidal, che oggi è la controfigura dell’energico assalitore così contundente nella prima fase del periodo bianconero. Gli altri sono cresciuti in mondi dominati: dalla Juve, dal Bayern, dal Psg, dal Barcellona. Quest’Inter campione d’Italia è una delle formazioni vincenti meno dotate di titoli individuali. Hanno cominciato quasi tutti con questo scudetto".

La mentalità e la cultura della vittoria è stata trasmessa al gruppo dal condottiero Antonio Conte, non nuovo a imprese simili: "Aveva già vinto molto: tre campionati alla Juve e uno al Chelsea, più lo straordinario lavoro fatto nel 2016 su una Nazionale povera di qualità ma ricca di orgoglio e desideri. Per certi versi Conte è il negativo di Jürgen Klopp: mentre il tedesco del Liverpool è un piacione in sala stampa e un martello dentro gli spogliatoi, il tecnico leccese ama diffondere all’esterno l’immagine di uno stakanovista un po’ fissato, ma il modo in cui i suoi giocatori — tutti, comprese le riserve e i giubilati — sono disposti a gettarsi nel fuoco per lui descrive un legame del quale fuori non trapela notizia. Ci si arriva per deduzione, e per riscontro visivo. Molti allenatori finiscono per esultare con i giocatori unendosi all’abbraccio generale, ma senza fondersi davvero con loro. Conte, a dispetto di giacca e cravatta, nei momenti di orgasmo collettivo non è mai un imbucato. Il gruppo lo accoglie, riconoscendone il delicatissimo doppio ruolo: la guida, ma anche uno di loro. La spiegazione risiede nell’onestà della leadership, che può anche essere spietata — lo è stata a lungo con Eriksen, lo è diventata con Vidal e Kolarov dopo una serie di errori — ma ha due pregi: la chiarezza, e la sensazione che tutto assecondi il bene della squadra. In un mestiere che a questi livelli si regge su equilibri psicologici fragilissimi, Conte può dire a chiunque che non è niente di personale, e venire creduto".

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Sezione: Rassegna / Data: Lun 03 maggio 2021 alle 12:50
Autore: Mattia Zangari / Twitter: @mattia_zangari
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