Football Club Internazionale Milano, globale per vocazione dall'atto della sua fondazione nel 1908, da martedì scorso ha esteso i suoi confini a tutto il mondo anche a livello visivo grazie allo svelamento del nuovo logo. La narrativa si gioca tutta attorno alle lettere I e M, iniziali del nome del club - Internazionale Milano - che in inglese è anche la contrazione di I am (I'm), cioè 'io sono'. Due parole che esprimono al meglio una forte identità, al contrario di chi ha parlato di operazione anti-storica: è rimasta fedele, infatti, la disposizione studiata da Muggiani, l'ideatore del primo stemma, mentre il nome non è stato toccato, anche se la F e la C di Football Club non compaiono più. La grafica, in pratica, è stata alleggerita per diventare concettualmente più densa a livello di significati anche oltre l'ambito calcistico. Nessuna mancanza di rispetto neanche per i colori sociali, identici a quelli scelti nella notte del 9 marzo di 113 anni fa, solo più vibranti e accesi per essere fruiti meglio sui dispositivi digitali (la nuova realtà). D'altronde siamo nel 2021 e – per chi non se ne fosse accorto – da un bel pezzo il nome di Suning ha preso simbolicamente il posto della famiglia Moratti anche nei luoghi di culto del club. Sono i tempi che corrono veloce, vanno talmente spediti che l'Inter ha cambiato bandiera tre volte a livello societario dal 2013 – Italia-Indonesia-Cina - senza mai riuscire ad alzare al cielo un trofeo. Sono passati undici anni dall'ultimo scudetto, quando I e M erano i segni grafici per identificare il legame tra l'Inter e Mourinho, il condottiero del Triplete che preferì non festeggiare la vittoria della Champions League nella splendida alba di San Siro per evitare di mangiarsi la parola data a Florentino Perez.
Dal magico 22 maggio 2010, un millesimo di secondo dopo l'abbraccio commosso con Marco Materazzi all'esterno del Bernabeu, Mou è diventato un allenatore del Real Madrid ma non ha smesso di essere interista. Così come i tifosi nerazzurri, pur sentendosi lì per lì traditi, hanno continuato a venerare il vate di Setubal. Che di questa energia che si chiama passione si nutre per rimanere al top, come spiegato negli scorsi giorni: "Onestamente, prendo la mia forza da me stesso, ma principalmente dalle persone che amo e dalle persone che so che mi amano, anche se molte di loro non le conosco e non le ho incontrate Li chiamo Mourinistas, perché in Portogallo usiamo 'ista' alla fine del nome del club che amiamo, per esprimere il sostegno. Per esempio se sei del Porto, dici Portista; se sei del Benfica, dici Benficista. Se sei di Mourinho, dici Mourinhista. Ci sono così tanti Mourinhisti in giro per il mondo che gioco per loro". In fondo, Mourinho sa di essere un brand mondiale per due semplici motivi: è uno dei manager più vincenti della storia e al contempo tra i comunicatori sportivi migliori su piazza. Uno che, dopo essersi calato nell'atmosfera milanese chiarendo di non essere pirla a un giornalista inglese che cercava di estorcergli notizie di mercato, ci impiegò poco a dire la sua sull'estetica delle nuove maglie presentate a pochi giorni dalla sua presentazione nel 2008: "La maglia è molto bella, ma bisogna vincere perché, senza vittorie, la maglia è un disastro".
Un discorso che può essere proiettato alla stretta attualità, in riferimento al rinnovamento della visual identity del marchio della Beneamata: è sacrosanto rendersi maggiormente identificabili alla platea mondiale, ma l'unica lingua che continua a capire il tifoso (non il simpatizzante) sono le emozioni che dà una squadra che gioca bene e vince, fa risultato in campo, riempie la bacheca con nuove Coppe. Lo sapeva Mou, lo sa benissimo anche Antonio Conte, incalzato sul tema nelle ore immediatamente successive al suo insediamento ufficiale da tecnico dell'Inter: era il 31 maggio 2019, giorno di vigilia della finale di Champions tra Liverpool e Tottenham. Non a caso a Madrid, anche se all'Estadio Wanda Metropolitano. "Sono belli questi ricordi, l'importante è che ci si prepari a rinfrescarli. Torniamo ai fasti di un tempo", disse il tecnico leccese ai cronisti che lo aspettavano all'esterno del ristorante dove aveva pranzato con la dirigenza e il presidente Steven Zhang.
A quasi due anni di distanza, Antonio sta per mantenere la promessa, che poi è quella per cui un club – da che mondo è mondo - guadagna fedeli: vincere di nuovo, vincere tanto per aumentare la gloria. Come quando ci si preoccupava poco o niente di che forma e colori avesse lo stemma. Se non per vedere quanto stesse bene in mezzo a tutte quelle medaglie appuntate sul petto: scudetto, patch del Mondiale per club e la coccarda. In quelle occasioni, veniva più facile baciare l'emblema che, anche nelle metamorfosi subite nel corso della storia, ricorda a ogni tifoso il perché ama quella squadra. I'm, appunto, come nello slogan proposto dal club in cui ogni devoto alla causa della Beneamata si riconosce. Il messaggio implicito non trova spazio nella campagna di lancio, ma è chiaro da quando lo Special One sentenziò che una cosa nel calcio diventa bella quando è avvolta nella luce accecante che solo una Coppa sa regalare. C'è da scommettere che anche in questo caso non esisteranno eccezioni.
Intanto, aspettando l'epilogo di questa stagione, ogni tifoso può imitare quello che fece il portoghese il 23 febbraio 2010, baciando lo stemma durante una conferenza stampa. "Lo scudetto me l'hanno rubato", disse scherzando JM dopo aver indicato che sul suo giubotto mancava effettivamente il simbolo di campione d'Italia in carica. Prima di aggiungere: "Quello dell'Inter è più importante, ora lo bacio per la prima volta".
Autore: Mattia Zangari / Twitter: @mattia_zangari
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