19.52. Otto minuti prima delle 20 inizia ufficialmente una delle serate europee più nere della storia recente dell'Inter. E' l'ora in cui l'Uefa rende nota la distinta dei nerazzurri: nell'undici titolare, come era filtrato nelle ore precedenti, non c'è il nome di Christian Eriksen – argomento sul quale è diventato stucchevole esprimersi per stessa ammissione di Marotta – ma quello di Nicolò Barella, soldato scelto di Conte, recuperato pienamente dopo il guaio alla caviglia di lunedì. Una notizia accolta sicuramente con favore dall'uomo (mai) seduto in panchina, anche se il racconto lo smentirà in maniera perentoria.

Il fischio quasi simultaneo tra Valdebebas e San Siro informa che i destini dei due campi non si toccheranno praticamente mai, anche perché la preparazione del presunto biscotto salta dopo nove giri d'orologio, quando Benzema inforna il primo pallone croccante in rete che mette in chiaro le cose: il Real non gioca le finali, le vince. Il Gladbach, con atteggiamento stranamente garibaldino già dal tunnel pur non essendo abituato al dentro o fuori, mette Thuram mezzala più tre attaccanti e soccombe al 32', dopo una rete fotocopia dell'étoile francese. Rimanendo in balia degli eventi fino alle 23, al triplice fischio di Vincic a San Siro. Un rumore che rimbomba in una Scala del Calcio vuota, per fortuna del tecnico, a cui sarebbero fischiate le orecchie già all'annuncio del nome dello speaker nel pre-partita. Figuriamoci a fine contesa, dopo sei punti raccolti in altrettante gare: media retrocessione, anzi peggio: non arriva nemmeno la consolazione dell'Europa League, ma il 'niente' opposto al 'tutto' di cui si è tanto parlato alla vigilia. Risultato peggiore anche della passata stagione, quella dell'eliminazione archiviata in maniera semplicistica a Dortmund con l'inesperienza di Sensi e Barella, i giocatori arrivati dalla provincia. A un anno di distanza, con la carta d'identità più stropicciata di Vidal e Kolarov è andata nettamente peggio: il cileno ha 'disertato' la gara del vivere o morire in Germania per espulsione sciocca rimediata coi blancos e poi saltato l'ultima per infortunio. Il serbo, colpito anche dal Covid-19, ha messo assieme appena 90' nel match d'esordio. In mezzo un'ostinata ricerca dell'allenatore di adattare a un utopistico controllo del gioco (ostacolando però l'inserimento di Eriksen) una squadra costruita per dominare gli spazi. L'eliminazione non è una fiamma che brucia tutta assieme, si consuma piano piano, a partire dal 2-2 preso per i capelli con i Fohlen dopo un errore di concentrazione (il fallo da rigore commesso dal Guerriero) e uno concettuale con la linea difensiva a 50 metri dalla porta. Poi lo spreco eccessivo di Kiev, la doppia sconfitta sciagurata con i campioni di Spagna e la vittoria convincente in terra tedesca incastonata in un percorso (sì, quel percorso che abbiamo capito dove porta) altamente insufficiente. Infine, il secondo 0-0 contro quegli ucraini annichiliti ad agosto nella bolla tedesca non può essere solo sfortuna o bravura del portiere Trubin ma la semplice constatazione che la squadra sa solo giocare in un modo, e che non è detto che riesca a esprimerlo ai massimi livelli se la benzina scarseggia. "Sì, ce l'abbiamo un piano B. Ma non ve lo diciamo perché altrimenti poi ci parano anche quello e  siamo rovinati", la risposta ironica di Conte a Fabio Capello nel post-gara. Quando Lukaku viene oscurato perché non domina fisicamente, dovrebbe suonare il secondo violino offensivo, Lautaro, che continua ad avere difetti di mira. No, non si chiama sfortuna. Se il Toro non ne ha più, Sanchez deve fare la sua parte anche prima del 76', soprattutto in partite in cui l'avversario si limita a tenere lontana la palla dalla sua area più che affondare i denti in una squadra sbilanciata. Anche in quel cammeo, Alexis va a tanto così dal gol ma Big Rom, in versione autogol di Siviglia, fa quello che non gli è mai riuscito in carriera: il difensore, parando prima della riga il pallone che avrebbe cambiato i giudizi. E costruito una strada parallela a quella del lungo giro d'Italia che ora l'Inter – senza gli impegni di Coppa – ha l'obbligo di vincere. Magari riflettendo su ieri sera, sulla cronaca di una morte annunciata in Europa. Che non può essere ridotta alle questioni arbitrali “L'Inter non è stata rispettata”, ha puntualizzato Conte. Né ai gol sbagliati, ma va ricercata nella casella delle reti al passivo: 9. Troppe per un allenatore che rinuncia a priori a Eriksen, il suo uomo più talentuoso, per ragioni d'equilibrio fino all'86' di una partita da vincere tassativamente. 

Sezione: Editoriale / Data: Gio 10 dicembre 2020 alle 00:00
Autore: Mattia Zangari / Twitter: @mattia_zangari
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