"L'anno vecchio è finito ormai ma qualcosa ancora qui non va" scriveva Lucio Dalla al suo caro amico. Un anno vecchio che sta per finire si porta addosso l'inevitabile doppia faccia delle cose belle come di quelle meno belle, il profumo di un ricordo indelebile e l'odore stantio di una delusione, il senso euforico di un istante prezioso e quello malinconico di un istante, invece, amaro. E il 2018 dell'Inter non fa eccezione.
Fa eccezione il 2018 del calcio italiano in generale che va in archivio come uno dei peggiori di cui ci si possa ricordare: è stato l'anno in cui il primo Mondiale dopo 60 anni senza gli Azzurri ha rimarcato con la matita rossa una crisi tecnica a cui si è aggiunta una crisi sistematica con l'utilizzo di un Var prima usato sapientemente e poi inspiegabilmente ridotto a strumento soggettivo che a volte si usa e a volte no, a volte si usa bene e altre volte no. Infine si è aggiunta, anzi si è fatta più acuta, una crisi morale che denota la totale mancanza di cultura sportiva in un Paese in cui tutti sono bravi a twittare, a lanciare hasthtag, a dire il giorno dopo cosa andava fatto il giorno prima e a sottolineare slogan così ridondanti e vuoti mentre invece nessuno è bravo a intervenire, dettare regole e cercare soluzioni durature e davvero efficaci.
Il 2018 dell'Inter, si diceva. Dovendo dare un voto verrebbe da dire un 6,5. Il livello si è alzato e quando il livello si alza la differenza tra successo e fallimento si fa sottilissima. Come una differenza reti o un gol in meno segnato fuori casa. Una rete non subita a Wembley o una vittoria sul Psv avrebbero cambiato in maniera inevitabile il giudizio. Ma la mancata qualificazione agli ottavi di Champions, per come si era messo il girone inizialmente "di ferro", resta una macchia e la più evidente dimostrazione di come a una buona squadra manchi ancora la capacità di fare il salto di qualità.
Il 2018 resta l'anno del ritorno tra le stelle, di un obiettivo, quel quarto posto dello scorso campionato, strappato in maniera rocambolesca, insperata, voluta, ottenuta coi nervi e la caparbietà più che con la razionalità. Tutto così tipicamente da Inter. Un quarto posto ottenuto con gli stessi punti della Lazio ma con dei risultati migliori negli scontri diretti. Sempre perché la differenza tra gioia e dolore sta nei dettagli. O in un gol in più segnato in trasferta. Ma è stato anche l'anno iniziato con due mesi bui che hanno rischiato di rovinare tutto prima che Spalletti trovasse in tempo rotta e uomini-chiave: quel Brozovic davanti alla difesa, quello Skriniar invalicabile al centro della difesa, ma anche Cancelo capace di far tornare in mente i tempi di Maicon che poi però è andato a rinforzare la squadra che già la più forte lo era per distacco, un Rafinha prima rinato poi abbandonato. Un 2018 in cui la vera costante si chiama sempre Mauro Icardi perché i suoi gol, le sue corse e la sua presenza sono certezze di ogni anno che finisca o finisca.
Il 2018 dell'Inter è da 6,5 perché lo scorso campionato ha strappato una posizione migliore di quella che poteva meritare sul piano del gioco e della qualità generale. E in questo campionato sta occupando saldamente una terza posizione che rispecchia i valori del campionato (dove la Juve resta irraggiungibile e il Napoli resta comunque superiore) ma che è anche frutto dello smarrimento altrui e dei tanti punti persi dalle due romane e da un Milan che arranca e ancora non trova la sua strada.
Gli ultimi 12 mesi di Inter hanno messo in vetrina una squadra che ha nella tenuta difensiva un punto di forza; che ha provato, e in parte è riuscita, a fare progressi nel palleggio, nel possesso palla ma che a volte risulta lenta nella manovra e nella costruzione perché manca della qualità individuale che nell'uno contro uno fa la differenza e che accelera quell'ultima giocata o quell'ultimo tocco. L'Inter viaggia veloce quando corre spedita sfruttando corsa e istintività dei suoi elementi, rallenta e si fa più prevedibile quando deve ragionare e impostare.
Gli ultimi 12 mesi di Spalletti hanno messo sulla scena un allenatore che è stato artefice e costruttore di un sistema di gioco, il 4-2-3-1, che ha dato stabilità e continuità ma che non sempre ha sfruttato e sfrutta frizzantezza e vivacità dei giocatori offensivi. Perché manca un vero ragionatore e un vero rifinitore. Spalletti si è dimostrato un allenatore che con certe scelte a partita in corso ha perso alcune gare (contro la Juve a San Siro sul finale dello scorso campionato) ma che con certe altre ne ha vinte (l'ultima in casa col Napoli).
Un allenatore che quasi mai ha il campione che gli leva le castagne dal fuoco, ad eccezione di Icardi, e che ha creduto di trovare una soluzione a centrocampo con un giocatore tanto voluto quanto fin qui frenato nel rendimento: Nainggolan. Difeso, protetto, punito fino ad arrivare a dire, alla fine del 2018 che ci sono 3-4 cose che mette davanti al calcio che non lo fanno rendere al meglio e per cui deve maturare. A 30 anni. Spalletti si è dimostrato un allenatore che proprio nelle ultime settimane ha messo da parte la cocciutaggine troppe volte espressa con un Perisic sempre e comunque titolare e un Politano regolarmente (a volte inspiegabilmente) sostituito. A cambiare le proprie idee, a volte, si fa un gran bene e questo è un merito per uno dei tecnici con la panchina più solida degli ultimi tempi (e anche questo è un merito, soprattutto della società).
Insomma e in conclusione l'Inter è stata nel 2018 una squadra che ha regalato gioie ai suoi tifosi con vittorie epiche ma che poi si è anche sciolta sul più bello. Ha vinto derby, scontri diretti e compiuto rimonte destinate a rimanere nella storia. Una storia dove però il lieto fine ancora viene rimandato perché se non alzi un trofeo per il settimo anno di fila vuol dire che qualcosa ancora continua a mancare. Ed è qui che il 2019, l'anno che verrà, dovrà essere diverso visto che si presenta e si aprirà con la Coppa Italia e l'Europa League, due obiettivi veri e concreti, due competizioni che diventano subito occasioni da inseguire con rabbia e ostinazione. Altrimenti l'Inter resterà un'opera avvincente ma incompiuta che merita poco più della sufficienza.
Autore: Giulia Bassi / Twitter: @giulay85
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