Mai come in questi giorni, l’antipatia reciproca e innata tra Inter e Milan è stata così forte. Dopo l’annuncio di Leonardo come nuovo tecnico interista, i milanisti si sono espressi in ogni modo possibile: contro Leonardo, contro l’Inter che ha 'osato' ingaggiarlo e addirittura contro il calcio che sta diventando sempre più professionistico e meno sentimentalista (anche se loro stessi hanno difeso il professionismo di Ibrahimovic quest’estate).
“Dove andremo a finire?” si sono chiesti i tifosi, i giornalisti e gli opinionisti rossoneri, a maggior ragione, quando aleggiava anche l’idea che Paolo Maldini, bandiera milanista (dai tifosi poi ripudiata) potesse trovare posto nella società nerazzurra. Sarebbe stato un colpo troppo forte per il loro fegato, già grosso dopo gli ultimi cinque anni. Già, cinque anni in cui finiscono a bocca asciutta e vedono Piazza Duomo colorarsi di nerazzurro: sarà anche per questo che quando giovedì sera hanno visto al centro di San Siro quel banchetto con cinque trofei in esposizione, non ci hanno visto più. Ho sentito giornalisti di fede milanista lamentarsi: “Moratti poteva risparmiarsela!” Già, noi interisti dovremmo sempre fare un passo indietro secondo loro: non avremmo dovuto festeggiare neanche per la Champions infatti, perché, a parer loro, è stata vinta immeritatamente.
Sono sempre pronti a ricordare il fallo di mano involontario (secondo loro) di Touré, nella gara di ritorno contro il Barcellona, e addirittura quei tre o quattro rigori imprecisati che c’erano contro il Chelsea (sempre secondo loro) dell’amato Carletto Ancelotti. Invece si dimenticano che l’ultima Champions League vinta dal Milan (nel 2007) è arrivata nell’anno in cui quella competizione non avrebbero neanche dovuto disputarla (vedi punti di penalizzazione 'alleggeriti' nel campionato precedente, dopo lo scandalo Calciopoli).
Non sono capaci di ammettere con sportività la superiorità di un'altra squadra: nell’anno in cui l’Inter vince qualsiasi cosa sono ancora pronti a rispondere che il Milan resta il club italiano più titolato in Europa. Lo sappiamo bene, è un dato di fatto e la dirigenza nerazzurra si è sempre complimentata per questi successi. Ma appena ricordiamo che rimaniamo i primi ad aver vinto cinque trofei in un anno, i cugini dimostrano un po’ di fatica nell’accettare questo dato, altrettanto oggettivo. Anche sull’ultimo trofeo c’è qualcosa da puntualizzare: l’a.d. Galliani, qualche giorno prima della partenza dei nerazzurri per Abu Dhabi, aveva affermato: “Ricordo che Mancini tre anni fa l’aveva chiamata Coppa dell’amicizia, ora sembra importante..”.
Galliani ha voluto lanciare una frecciatina ai nerazzurri, lecita, alla luce di ciò che aveva detto Mancini. Ma il geometra rossonero e tutti i tifosi milanisti si dimenticano di quello che è successo al loro ritorno da campioni del mondo: in perfetto stile Inter, prima del derby del 23 dicembre, i campioni nerazzurri avevano applaudito quelli rossoneri alla loro entrata in campo. Al nostro ritorno, invece, c’è chi ha criticato la nostra esposizione di coppe e addirittura chiama ironicamente il Mondiale, “la Coppa del Congo”. Che bella differenza!
Di differenze da descrivere ce ne sarebbero ancora a centinaia: ma una in particolare la voglio precisare. Una squadra acquista un’identità grazie ai giocatori, all’allenatore ma anche e soprattutto a chi ne è presidente: è colui che traccia una via, uno stile da seguire. Non volendo criticare l’operato altrui, mi permetto però di elogiare quello di Massimo Moratti: è tifoso prima di essere presidente, è appassionato prima di essere dirigente. Vive con la squadra, ama i suoi giocatori, si fa consigliare nelle scelte e dà libertà agli allenatori che ingaggia, avendone la totale fiducia. Da Moratti, nella maggior parte dei casi, arrivano sempre parole posate, neutre, educate.
E’ capace di complimentarsi e abbassare la testa quando non si vince e purtroppo nel passato è accaduto spesso; in quei momenti difficili mise in discussione tutto per il bene dell’Inter: allenatori, giocatori e persino sé stesso, dimettendosi per un periodo. L’Inter potrà vincere o perdere di nuovo, ma nessuno, con qualsiasi sfottò, toglierà mai quell’impronta che la caratterizza e che rispecchia il modo di vivere il calcio del proprio presidente e dei propri tifosi. Quell’impronta che fa dell’Inter un grande club, perché come ho già detto, in fondo, è questione di stile.
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