Così, a pelle, questo genere di partite negli scorsi anni le giocavamo un po’ alla viva il parroco, come capita capita, che magari la sfanghi con una bottarella di fortuna tipo rigore di Nagatomo col Pordenone. Ma i tempi cambiano, le cose cambiano, gli atteggiamenti cambiano, gli uomini cambiano. A volte ti va di sfiga, soprattutto con gli uomini, altre, al contrario, di gran lusso; come con Romelu Menama Lukaku Bolingoli nato ad Anversa, Belgio, ventisei anni orsono, di professione centravanti, stazza imponente, devastante negli spazi aperti. Romelu arriva per una cifra importante a Milano la scorsa estate, fortemente voluto e preteso da Antonio Conte, da Manchester sponda United tra le pernacchie e le risatine con colpettini di gomito annessi dalla stragrande maggioranza dei tifosi Red Devils, allenatore compreso probabilmente, e i vedremo degli espertoni calcistici di casa nostra, pronti a comandare il plotone d’esecuzione in caso di fallimento del ragazzone belga. In soldoni il classico pippone, come ha ricordato lo stesso Conte qualche giorno fa.

Alla faccia del caciocavallo, avrebbe detto Totò; anzi, spieghiamoci meglio, alla faccia del pippone diciamo noi. Lukaku non è elegante da vedere, non segna a mo’ di mitraglietta anzi, qualche volta sbaglia gol elementari, non danza sulle punte tra le maglie della difesa avversaria. No. Romelu è sinonimo di squadra, il collettore dei momenti di difficoltà, il trascinatore magari silenzioso ma, come dicono a Milano, aveghen di uomini del genere in campo; non sai che fare? Passa a Lukaku. È complicato districarsi dal pressing avversario? Lancia lungo per Lukaku. Ripartenza in contropiede veloce? Appoggia a Lukaku. Che potrà far discutere, che è ancora inviso a qualche indomito sostenitore di colui che c’era prima, modello soldato giapponese su isoletta deserta alla fine della seconda guerra mondiale, che delle volte ti vien voglia di morderti le dita ma guai se non vestisse la maglia numero nove.

Ieri sera Romelu ha mostrato la via, non fosse bastata la grinta e la carica che sa dare Antonio Conte a cui non piace perdere nemmeno a calcio balilla, gettandosi come una pantera sul primo pallone vagante giocato con eccessiva sufficienza dai difensori cagliaritani e trasformando il tutto in rete dopo venticinque secondi venticinque dall’inizio della partita, diretta in maniera insufficiente da Chiffi, lo stesso di Inter-Parma per spiegarci meglio al quale, evidentemente, l’atmosfera del Meazza dice assai male. Passi il fuorigioco tecnologico sul gol annullato a Lukaku per un paio di millimetri, non è farina del suo sacco, ma il calcio di rigore non fischiato per fallo di mano che ancora stamattina ti chiedi come fa a non averlo visto è colpa grave, indipendentemente dal risultato finale. E l’ammonizione a dieci secondi dalla fine per Sensi, reo di aver protestato su un fallo di ostruzione non evidente, di più, la chicca conclusiva. Ma torniamo a parlare di noi, argomento più interessante.

L’Inter di ieri sera è stata a tratti traumatizzante per gli avversari, che non ci hanno capito nulla fino ad una ventina di minuti dal termine, quando i rossoblù isolani hanno deciso che era ora di mettere il capino fuori dalla propria trequarti difensiva, tanto peggio di perdere tre a zero cosa poteva esserci? E, complice il calo comprensibile nerazzurro, hanno colpito un palo con Radja, prestazione davvero sottotono la sua, prima di accorciare grazie ad Oliva, con la difesa interista ferma a guardare come le stelle di Cronin. Ma la partita di storia non ne aveva più, semmai ne avesse avuta prima. Ranocchia mette d’accordo tutti quanti timbrando il cartellino e chiudendo con un risultato che rispecchia la differenza di valori e motivazioni vista in campo.

Plauso speciale per Borja, che avesse qualche anno in meno sarebbe uomo da grandi palcoscenici, così come bravi  Frog e Di Marco leggermente più degli altri. Però evitiamo le classifiche di rendimento, dai, dopo una partita così, giocata con questa determinazione ed applicazione, l’applauso deve coinvolgere tutti. Perché questa è o sembra essere la differenza tra le Inter del passato e l’attuale; la voglia di correre l’uno per l’altro, di aiutarsi, di cercarsi sul terreno di gioco, di non mollare mai. E tanto basta per riaccendere nei cuori dei tifosi nerazzurri speranze sopite, un nuovo orgoglio calcistico, finalmente il poter dire noi siamo l’Inter con fierezza. Non è un miracolo, è semplicemente aver pescato uomini giusti nei posti giusti, a cominciare dal campo. Nel segno di Romelu, il leader di una classe operaia che vorrebbe tanto andare in paradiso. Adesso resettare muscoli e cervello, domenica si va a Lecce per vincere; con un orecchio al mercato, che potrebbe regalarci qualche bella sorpresa.

Alla prossima.

Sezione: Editoriale / Data: Mer 15 gennaio 2020 alle 00:00
Autore: Gabriele Borzillo / Twitter: @GBorzillo
vedi letture
Print