Con buona pace di Bergomi, si parlerà ancora molto di Christian Eriksen. È così. E non solo perché il danese resta un grandissimo giocatore nonostante le difficoltà incontrate a Milano, ma anche perché parlare di una grana in casa Inter fa sempre più rumore rispetto a casi simili in altri club. Si potrebbero riempire le pagine con l'eterna attesa di Bernardeschi, con lo scambio fallimentare Cancelo-Danilo, con le difficoltà di Tonali e tanto altro ancora. Ma si sa: parlare di Inter (possibilmente di casi o crisi) paga di più. Per cui, caro Zio, rassegnati.

E si rassegnino anche i tifosi nerazzurri. Eriksen non sarà mai trattato come un giocatore qualunque per il semplice fatto che non lo è. Non lo era all'Ajax, non lo era al Tottenham, non lo è in nazionale e non lo è neppure a Milano. L'Inter ha investito circa 27 milioni lo scorso gennaio su un calciatore in scadenza di contratto ma di valore assoluto, al quale elargisce uno stipendio di 7,5 milioni all'anno. Un'operazione win-win per il club, per due motivi: A) In ogni caso, è stato meglio prendere Eriksen che non prenderlo a quelle condizioni economiche e vista la penuria di centrocampisti nella seconda parte della passata stagione; B) Anche nel malaugurato caso in cui si dovesse decidere di cederlo, certamente si andrebbe a incassare una cifra che garantirebbe una plusvalenza.

Ma usciamo dall'argomento meramente economico e parliamo di campo. Possibile che ci sia un grosso equivoco attorno a Eriksen. Lasciando stare chi lo paragona a Bergkamp (sì, abbiamo ascoltato anche questo...), bisogna sottolineare come il danese sia certamente un centrocampista offensivo, ma non per come lo intendiamo qui in Italia. Eriksen non è un trequartista puro. Tanto per intenderci: non è né Kakà né il primo Totti e nemmeno Zidane. Eriksen è un centrocampista di qualità, che però non ama ricevere palle spalle alla porta e non ha nelle corde neppure l'inserimento prepotente. Sì, è un elemento che segna e che sa inserirsi con i tempi giusti, ma le sue peculiarità sono decisamente altre. Il danese vede il gioco come pochi, detta i tempi della manovra, adora toccare spesso la palla e ha bisogno di sentirsi leader. E questo non deve essere per forza visto come un difetto. In particolare, Eriksen ha bisogno del movimento continuo dei compagni di squadra. In poche parole, è molto più un 8 che un 10, almeno per come lo si intende in modo classico. Sarebbe una perfetta mezzala in un centrocampo a tre o in una mediana a due, sempre che poi al suo fianco vengano impiegati giocatori complementari. Non a caso, nel Tottenham, Pochettino spesso gli affiancava due guardaspalle come Dier e Dembelé (o anche Wanyama e Sissoko) oppure lo lasciava libero di partire da una posizione defilata per poi accentrarsi, prendere palla e trovare da solo le zolle preferite. In nazionale, poi, il discorso vale ancora di più: lì fa un po' quello che vuole. E i risultati si vedono.

Nell'Inter la storia è totalmente differente. Il gioco di Conte, in mezzo, ha bisogno di altro. E non a caso brilla gente con le caratteristiche di Barella, Vidal, Sensi, Marchisio, Pogba, Kanté, Matic. Eriksen sta vivendo un po' quello che ha vissuto per anni Brozovic, totalmente un altro giocatore quando ha arretrato il raggio d'azione. La domanda nasce spontanea: perché non provarlo regista basso nel 3-5-2 'alla Pirlo'? Chissà, magari questo potrebbe essere l'unico modo per valorizzare l'immenso talento del danese nello scacchiere contiano. Ci sarebbe però bisogno di tempo e, forse, di convincere lo stesso Eriksen a riciclarsi in un ruolo non così banale. La certezza è che – al di là delle speculazioni e delle facili ironie – una soluzione va trovata a questo equivoco. Ma basta drammi: certi matrimoni possono anche non funzionare senza che nessuno ne abbia colpa.

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Sezione: Editoriale / Data: Mar 27 ottobre 2020 alle 00:00
Autore: Alessandro Cavasinni / Twitter: @Alex_Cavasinni
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