Assieme a Rodrigo Palacio, lui è stato decisamente la nota più lieta dell’ultimo ed eccessivamente bistrattato mercato estivo dell’Inter: un giocatore da cui si dovrà obbligatoriamente ripartire se si voglion mantenere velleità imminenti di vertice, fondamentale base del futuro scheletro di una Beneamata non certo prescindente nemmeno dal talento e dal vigore atletico dei vari Andrea Ranocchia, Juan Jesus, Fredy Guarin e Mateo Kovavic. Lui è Samir Handanovic, il top-player dal quale ridecollare al termine di una stagione iniziata scontando il dazio di una formazione quasi completamente nuova rispetto all’anno precedente e poi sinistramente naufragata subito dopo l’esaltante vittoria conseguita in casa della Juve (match che a molti aveva fatto frettolosamente azzardare paragoni ingombranti per Andrea Stramaccioni, oggi ingiustamente addirittura visto come un mister di zero qualità di cui sbarazzarsi nottetempo) soprattutto a causa degli infiniti infortuni patiti da numerosi uomini-chiave, dei reiterati e talvolta colossali errori arbitrali a sfavore perfettamente fotografati dalle dichiarazioni di Paolo Bonolis e del rilevante dispendio energetico riscosso dalla per nulla snobbata Europa League del giovedì.
Un portiere, Handanovic, che dopo appena dodici mesi di militanza può esser tranquillamente già annoverato tra i migliori cinque della storia nerazzurra del dopoguerra, insieme a Walter Zenga, Giorgio Ghezzi, Julio Cesar e a colui per svariati motivi maggiormente rassomigliante all’estremo difensore sloveno: Gianluca Pagliuca, batman bolognese classe 1966 accomunato a Samir per il carattere pacatamente risoluto e la struttura corporea imponente ma agilissima, per le pregevoli capacità tecniche possedute in grado di renderlo pienamente degno della pesantissima eredità lasciata dal formidabile e adorato predecessore, per le determinanti prodezze votate più alla concretezza che alla spettacolarità fruttanti almeno 7-8 punti extra a torneo e per il fatto di essere giunto a Milano, in un’annata di scarsi risultati di squadra trascorsa a sventare tra i pali una quantità di pericoli ben sopra il previsto, al culmine della propria maturità fisico-calcistica.
Pagliuca sbarcò infatti sulle rive del Naviglio nella torrida estate 1994, quella della “Serenata Rap” cantata dall’euforico Jovanotti al Festivalbar, reduce da un Mondiale statunitense giocato da titolare (come accadrà poi anche per l’edizione francese del 1998) ma amaramente sfumato alla lotteria dei rigori nella finalissima disputata contro il Brasile di Romario e Bebeto: fortemente voluto dal nuovo allenatore Ottavio Bianchi, deciso assieme alla società ad allontanare l’enormemente carismatico ed idolatrato dalla folla “senatore” Zenga, l’atleta emiliano proveniente dalla Sampdoria fu l’unico colpo di prestigio dell’ultima campagna-acquisti firmata dal sempre più in difficoltà presidente Ernesto Pellegrini, il quale da lì a breve si sarebbe in maniera crescente sentito rappare nelle orecchie le rabbiose serenate dei tifosi che lo invitavano a farsi da parte. Cinque anni vissuti all’ombra del Duomo a proteggere egregiamente la porta del Biscione pur se, eccezion fatta per l’over trenta capitan Bergomi, il pacchetto arretrato che ne doveva garantire l’incolumità nel tempo avrebbe ascritto nomi sicuramente non passati alla storia del calcio tipo Bia, Festa, Mirko Conte, Fresi, Sartor, Galante, West, Colonnese e i fratelli Paganin: difensori immancabilmente strigliati dall’ex numero uno blucerchiato specialmente in occasione di evitabili gol subiti, ma spesso capaci, grazie alle frequenti parate salva-risultato della saracinesca felsinea, di distinguersi a fine stagione come una delle retroguardie meno bucate della Serie A.
Cinque anni, e 234 presenze totali, interrottisi a causa di una delle tante scelte folli operate dal tecnico viareggino Marcello Lippi nel suo fallimentare periodo interista, proprio il mister che alla guida della Juventus aveva vinto lo scudetto 1997/’98 per mezzo di una sequenza clamorosa di sviste arbitrali e dunque immeritatamente privato Pagliuca, statuario protagonista di quella compagine nerazzurra classificatasi seconda al termine di un lungo testa a testa con la formazione piemontese, di un campionato cui persino il giornalista e sostenitore bianconero Roberto Beccantini ne criticò l’autenticità arrivando a scrivere codeste frasi, quasi alla stregua di terribili avvisaglie di ciò purtroppo scoperto soltanto otto primavere dopo, sul quotidiano torinese posseduto dalla Fiat “La Stampa”: “La stessa Juve, o almeno quella costola della Juve meno faziosa, faticherà a festeggiare l’imminente titolo. Non si può dire che nel corso della stagione la classe arbitrale abbia preso di petto la Juventus. Tutt’altro. Non si può rimanere indifferenti a certe coincidenze così singolari e, permettetecelo, così nutrite. C’è il sospetto che le regole non siano uguali per tutti o che, comunque, per alcuni siano più uguali degli altri”.
Un 1997/’98 vissuto ai vertici pure in ambito europeo e conclusosi a Parigi con lo straripante successo contro la Lazio in finale di coppa Uefa, l’unico trofeo conquistato da Gianluca (quella sera capitano della Beneamata per l’assenza di Bergomi) nel complicato e intenso lustro trascorso sotto la Madonnina tra vorticosi cambi di allenatori e di proprietà, speranze smarrite e poi ritrovate, iniqui soprusi, trionfi svaniti di un soffio, contestazioni dell’esasperato pubblico e un’invidiabile imbattibilità nelle stracittadine di campionato: dieci gare consecutive disputate da “Paglio” e compagni di fronte al Milan – società che magari mancherà di ventriloqui, ma di sicuro non di ossessionati e livorosi soldatini del piccolo schermo – con un soddisfacente bilancio di quattro vittorie e sei pareggi. Gianluca Pagliuca, assoluto uomo-derby. Anche in questo, identico al grande ed imprescindibile Samir Handanovic.
Pierluigi Avanzi
Autore: Redazione FcInterNews / Twitter: @FcInterNewsIt
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