“Un libro dove voglio leggere cose che non ci siano su Wikipedia”. Così Alessandro Alciato presenta il libro di Henrikh Mkhitaryan ‘La mia vita sempre al centro’ dal palco del Mondadori Store in Piazza Duomo a Milano. Il centrocampista armento racconta molti aneddoti della sua vita, partendo dalle parole di suo padre che lo invitò a essere “una brava persona prima di ogni cosa”, al rischio di non giocare più a calcio dopo l’allenamento al quale andò con la madre perché il padre stava male: “Volevo andare con lui, non è successo perché non capivo che stesse male. Poi, tornando in Armenia, mi sono trovato un armadio coi palloni coi quali ha giocato mio padre. In quel momento ho deciso di tornare a giocare e con mia madre sono andato alla scuola calcio del Pyunik”.
Hai vissuto momenti difficili in Armenia.
“Sì, però sono state quelle difficoltà che fanno l’uomo più forte, che quando risolvi diventi un uomo vero. Fanno parte di una persona che ha vissuto sempre in Armenia e vuole essere sempre fiero di essere armeno malgrado tutti i problemi. Non avevano acqua al centro sportivo e a casa, c’era solo per due ore al giorno e quindi dovevamo provare a fare la doccia in quel momento; facevo i compiti con il lanternino, non è stato facile però siamo sopravvissuti. Posso essere un esempio per questa generazione per fargli capire che vivere senza Internet è facile ma vivere senza acqua e luce no”.
Due lauree, sette lingue parlate. Questo grazie a tua nonna che ti raccomandava di studiare.
“Quando sei piccolo non ti rendi conto del perché tua madre ti dicesse queste cose, poi crescendo lo capisci. Ricordo che per punizione per aver mentito sul fatto di aver fatto i compiti mi fece studiare fino alle 3 di notte, per farmi capire che con lo studio non si scherza”.
Nel corso della tua carriera hai fatto slalom legati alla politica e alle tensioni vissute tra l’Armenia e altri Paesi.
“Sono stati momenti difficili perché non poter partecipare ad uno shooting del Borussia Dortmund essendoci compagni turchi è stato difficile. Anche la finale mancata a Baku è stata un peccato perché avrebbe potuto essere l’unica finale della mia carriera. Ma non devi abbassare la testa, andare avanti e crearti il futuro”.
Sognavi l’Arsenal e alla fine hai giocato lì.
“Pensavo che quella fosse la squadra dei giovani talenti con un tecnico bravissimo che li faceva giocare. Avevo le videocassette quando ero bambino. Arsene Wenger era un gentleman e un grande allenatore, prima di andare in campo ci diceva di divertirci”.
Con Emery avevate problemi di lingua.
“Quando arrivò a Londra non sapeva una parola di inglese, però ha studiato da subito. Non è stato facile comunicare con lui, per tre mesi non ho giocato titolare perché aveva altre idee di gioco. Quindi ho deciso di andare via. Ci sono stati giochini di vita che ti mettono in difficoltà per capire se ne puoi uscire come persona forte”.
Con Mourinho non è stato subito amore. È stato l’unico col quale hai litigato davvero.
“Ho avuto tantissimi problemi ma ho sempre cercato il problema dentro di me, non ho mai litigato. Sono sempre stato pronto ai tuoi giochi, facendomi trovare sempre pronto”.
Lo raccontiamo un giochino?
“In Inghilterra a quei tempi potevi portare 18 giocatori, e capitava che mi chiamava quando andavamo in trasferta e mi diceva che non ero convocato. Voleva vedere se fossi stato capace di affrontare questi problemi e io non mi sono mai lamentato perché magari avrei avuto l’opportunità di giocare in futuro. A Roma abbiamo lavorato benissimo, abbiamo vinto la Conference portando un trofeo a Roma dopo tanto tempo e ci siamo abbracciati”.
Hai visto Mino Raiola vestito elegante, qualcosa di incredibile.
“I nostri incontri non sono mai stati ufficiali, semmai cose di famiglia. Sono stato grato a lui perché ha sempre fatto tutto per i suoi giocatori per farli sentire bene. L’unico giorno che è venuto in giacca è stato al mio matrimonio. Lo ricorderò sempre perché non lo avevo mai visto vestito in quel modo, e lui mi disse che con la sua presenza avrei capito quanto fossi importante per lui come persona”.
Raiola a un certo punto ti chiama per partire per Dortmund, arrivi in albergo e ti fermarono perché la firma era saltata perché lui aveva lanciato la sedia ad un dirigente giallonero.
“In quel periodo avevo tre opzioni: Liverpool, Tottenham e BVB. Era il primo passo europeo per me, gli dissi che non potevo perdere tempo chiedendogli di andare in Armenia. Due giorni dopo mi chiamò per andare in Germania. Arriviamo all’hotel quando esce Rafaela Pimenta che mi dice che stanno volando le sedie e non per modo di dire… Poi Raiola mi dice di uscire e mi ha raccontato che non avevano mantenuto la parola. Mi sono messo io a chiudere con i dirigenti”.
In questo libro c’è un amore enorme per l’Inter. Come sei arrivato a Milano?
“Dopo tre anni bellissimi non pensavo di cambiare squadra a 33 anni, pensavo di chiudere a Roma. Invece mi proposero un 1+1 e mi chiamò Piero Ausilio dicendomi che mi voleva andare all’Inter. Io però non ero convinto perché lui doveva vendere due giocatori e dovevo rispondere entro il 31 maggio. Io dissi di lasciar stare rimandando tutto alla stagione successiva. La stagione dopo, al termine di Inter-Roma 3-1, Ausilio mi richiamò dicendomi che voleva chiudere la trattativa”.
Però il presidente della Lazio ti voleva.
“Sì, però era meglio non andare per via della rivalità con la Roma. Non volevo creare polemiche e poi c'era l'Inter”.
Prima di Istanbul, c’erano riunioni assurde tra giocatori nello spogliatoio.
“Era un periodo in cui in Champions e Coppa Italia volavamo e in campionato andavamo male. Ad ogni sconfitta facevamo una riunione dove ci dicevamo le cose in faccia e affrontare il problema, senza scappare dal problema. Cercavamo di capire dove fare meglio, alla fine abbiamo fatto bene perché queste cose ti uniscono e fanno forte. Poi io racconto l’episodio poi il resto non si può dire…”.
Quando avete capito che sarebbe potuto arrivare lo Scudetto della seconda stella contro il Milan?
“Non cerchiavamo date, quando abbiamo vinto contro la Juve in casa e siamo passati in testa alla classifica abbiamo iniziato a fare i calcoli per capire se quella partita col Milan fosse stata decisiva. Noi però andavamo avanti vincendo le partite, poi abbiamo pareggiato col Cagliari in casa ed è arrivato il momento in cui stavamo sognando lo Scudetto quella sera. Alla fine siamo stati felici tutti, vincere così il ventesimo è stato un bel regalo per tutti i tifosi. Poi c’è stata la parata fino al Duomo, dopo un’ora che eravamo usciti da San Siro eravamo andati avanti di cento metri; doveva durare quattro ore, è durata otto-nove ore”.
Sulla finale di Monaco dici che non la rivedrai più e non ti sai dare una spiegazione?
“Giusto, è stato un incubo e basta. Dobbiamo pensare al futuro, fare bene e giocare una Champions nei prossimi anni. Non so se potrò giocarla ma vorrei vedere l’Inter giocarla”.
Ma sei diventato una brava persona?
"Lo devono dire le persone che mi conoscono... la cosa più importante è vedere mia madre felice, con un sorriso grande e dirle che sono diventato una brava persona".
Che pedina degli scacchi saresti?
"La regina, sono importantissimo e sono dappertutto".
Qual è il momento più bello vissuto in campo?
"Direi la finale di Europa League vinta con il Manchester United. Ma anche le due finali di Champions sono state un orgoglio, perché molti giocatori non arrivano a giocarla. Avrei voluto vincere, ma la vita va avanti e bisogna accettare le sconfitte".
Autore: Christian Liotta / Twitter: @ChriLiotta396A
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