Il calciomercato, ormai è cosa nota, è diventata una disciplina a sé, che in un certo senso ha ormai assunto vita autonoma rispetto al mero discorso calcistico e si è creato un suo ecosistema fatto di addetti ai lavori, giornalisti, semplici appassionati, profili social più o meno attendibili e chi più ne ha più ne metta. Ormai hanno raggiunto i livelli della preistoria quei tempi in cui la campagna acquisti durava due settimane o giù di lì, con rose chiuse il 6 luglio e poi via in ritiri lunghissimi nei quali saggiare le tattiche e soprattutto gli uomini che, a meno di modifiche da effettuarsi in quel di novembre, sarebbero stati gli stessi a disposizione dei vari allenatori per tutta l’annata e i tifosi potevano cominciare a farsi un’idea delle squadre già nella Coppa Italia che era il vero appuntamento di inizio stagione, prima ancora di tornei estivi più o meno utili e danarosi.
Purtroppo, però, come avviene fin troppo spesso, la piega che questa situazione ha assunto nel corso degli anni è stata, per buona parte della popolazione, tutt’altro che positiva. Anzi, sotto alcuni aspetti si può anche parlare di una deriva tossica, tra gente che sembra dedicarsi e informarsi sulle vicende di quella che definisce la sua squadra del cuore soltanto in quei mesi, ma più che per volontà di stimolare una sincera curiosità su quelli che saranno i volti nuovi che popoleranno i campi di Serie A, la bramosia è dettata nel migliore dei casi dalla volontà di giocarsi anche una fortuna virtuale nelle aste del Fantacalcio sui suddetti nomi, quando non dall’arrogarsi un presunto ‘diritto a sognare’ che poi finisce con lo sfociare in un’esplosione di rabbia mal repressa e di reprimende contro questo o quel rappresentante della società. Dimenticando che magari certi nomi che farebbero sognare davvero non sono più prerogativa del calcio italiano ma preferiscono lidi ben più ricchi e importanti.
Ha assunto toni ancora più pesanti, poi, quell’esercizio retorico dalla dubbia utilità e dall’ancora più dubbia rilevanza a livello di opinione, ma dal quale nessuno, per un autoinflitto obbligo morale o più semplicemente per questioni di necessità redazionale, riesce ad esimersi: si parla ovviamente della necessità di dover attribuire un voto alle operazioni di ciascuna squadra. E mai come questa estate, forse, parlando nel dettaglio di Inter la questione ha raggiunto un livello quasi schizofrenico. Basta provare a fare un gioco e provare ad immedesimarsi in un marziano sbarcato sulla Terra il 1° settembre, che non sa nulla di quello che è successo sul pianeta prima di allora e che per puro diletto vuole capire come sia andata l’estate nerazzurra: come volete si possa raccapezzare il malcapitato alieno nella ridda di giudizi che toccano tutta la gamma delle valutazioni possibili, senza riuscire a comporre una linea sostanzialmente comune. D’accordo che l’opinione è libera, però il povero alieno come fa a capire cosa ha fatto la dirigenza nerazzurra per rinforzare la rosa del nuovo allenatore?
Insomma, in testa avrebbe una grande confusione. Ma duole dire che al termine di questa turbolenta estate, nell’ambiente nerazzurro il marziano non sarebbe l’unico. Confusione: questo, purtroppo, è stato il leit motiv dalle parti di Viale della Liberazione. Non necessariamente voluta, di sicuro indotta da quelli che sono stati gli eventi collaterali che hanno finito col travolgere un po’ tutto. Provando a creare una timeline essenziale dei fatti, si possono distinguere tre ondate: la prima, quella partita a ridosso del finale traumatica della scorsa stagione, è quella che vede un’Inter convinta di proseguire sulla strada già battuta da tempo, fiduciosa del fatto di proseguire il ciclo di Simone Inzaghi e che si muove addirittura con ampio anticipo portando a casa Petar Sucic e Luis Henrique. E che soprattutto gongola di fronte alle grosse cifre incassate grazie al tanto vituperato percorso che fanno pensare ad un’estate di arrivi in grande stile.
Poi, arriva il clamoroso spartiacque, l’evento all’origine di tutta la baraonda: l’incursione della Saudi Pro League, con l’Al-Hilal che prende, impacchetta e porta a casa l’artefice di questi ultimi anni gloriosi della storia nerazzurra. Un addio che l’ambiente interista digerisce a piccole gocce e con grande fatica, quello di Simone Inzaghi, che ha preferito gli agi e i milioni degli arabi ad un altro anno che probabilmente si sarebbe preannunciato più stressante dei precedenti, visto e considerato che l’esito nefasto dell’ultima stagione avrebbe probabilmente gravato come un macigno sulla mente di un tecnico che non è esagerato dire abbia compiuto una vera e propria impresa, per non scomodare il termine miracolo, sin dal primo giorno della sua esperienza a Milano. Forse troppo, da sopportare, dopo anni di durissimo lavoro nei quali a volte non ha dovuto fare solo il lavoro di tecnico sul campo…
Sta di fatto che la partenza di colui che si era guadagnato il soprannome di Demone da Piacenza ha gettato tutta l’Inter in un inferno, soprattutto un inferno di approssimazione che ha assunto a volte tratti anche grotteschi. A partire dalla caccia, rivelatasi poi vana in partenza, a Cesc Fabregas, e una serie di porte in faccia fino alla decisione di affidare la panchina a Cristian Chivu, uno che conosce bene l’ambiente nerazzurro ma che nella sostanza da capo allenatore di Serie A vantava fino a quel momento un curriculum di nemmeno 15 partite. Chivu che ha dovuto prendersi la briga di traghettare la squadra in un’avventura surreale come quella del Mondiale per Club, gestendo le scorie fisiche e nervose di un’annata pesantissima culminata con l'eliminazione per mano del Fluminense, le parole di Lautaro Martinez e la breccia di Charlotte.
Approssimazione è quella che ha contraddistinto anche il resto dell’estate quando ci si è ritrovati a fare i conti col mercato: tramontata l’ambizione di proseguire sul filo logico della gestione inzaghiana, si è passati in breve tempo dal sogno Ademola Lookman, nome effettivamente ambito ma intorno al quale è nata una tragicomica telenovela dove alla fine nessuno è uscito vincitore, alla necessità di cambiare direzione e magari ammorbidire il processo che porterà al 2026, anno delle scadenze di alcuni contratti pesanti, pensando soprattutto a liberarsi di alcuni ingaggi ingombranti e affidandosi per il resto alle certezze già presenti in rosa e limitandosi o a colpi a sorpresa in tutti i sensi come Andy Diouf o a occasioni last second quale Manuel Akanji.
Alla fine della fiera, la sensazione che si ricava è quella di una totale incompiutezza, di un lavoro lasciato a metà se non addirittura meno, e soprattutto fatto male; e mai come questa volta, senza il tocco magico di Simone Inzaghi, si respira intorno all’Inter un’aria di scetticismo totale. E mentre a nemmeno poche ore dalla chiusura delle porte dello Sheraton Hotel si comincia, come a voler infierire, a parlare di possibili investimenti a gennaio o di colpi a parametro zero nel 2026, il tifoso guarda al presente con una sensazione di scoramento che si riverbera anche in uno stadio che, complice l’assenza anche del tifo organizzato, fatica, anzi quasi sembra rifiutarsi di far sentire la propria voce. Come a non credere più a niente, a vivere un’annata di disamore e disincanto.
Sembra tutto oscuro intorno all’Inter, e mai come questa volta serve forse una mossa pesante: servirebbe, ad esempio, che chi di dovere lasciasse perdere per un po’ proclami di ogni sorta e presentare questa come un’annata comunque interlocutoria, dove si possono coltivare anche delle ambizioni ma dove sarà importante mettere delle fondamenta per ogni discorso futuro. E dove, soprattutto, servirà lasciare lavorare nel massimo della serenità la squadra e il suo allenatore, perché il compito è difficile e caricare il gruppo di ulteriori pressioni può essere deleterio. Occorre serenità, criterio, magari anche silenzio intorno all’Inter; che magari non è la cosa più auspicabile ma è anche vero che nel silenzio di Appiano, venerdì, Andy Diouf si è inventato un gol clamoroso contro il Padova in un’amichevole. Un piccolo mattoncino senza dubbio, ma ogni grande viaggio inizia con un piccolo passo. Fatto con calma.
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