Il calcio toglie, il calcio dà. Ci siamo lasciati così al termine di Genoa-Juventus, con i padroni di casa che clamorosamente battono i bianconeri portando a casa un pezzo di speranza in ottica salvezza. Speranza regalata dallo stesso Mimmo Criscito che al termine del derby della Lanterna di settimana scorsa lasciava il campo del Marassi in lacrime, assalito dalla disperazione che l'errore dal dischetto aveva provocato. Il calcio toglie, il calcio dà. Una sorta di karma silenzioso che di tanto in tanto assiste il futbol, facendo nascere fiori dal letame. Lo stesso si potrebbe dire di Inter-Empoli, l'anticipo del venerdì pomeriggio che ha preceduto la gara di cui sopra. Si potrebbe ma non si può. Un 'posso, non posso' sottile come il confine che separa il karma dal destino di cui si è artefici e la differenza tra Mimmo Criscito e Lautaro Martinez è (quasi) tutta lì. Quale sarebbe la differenza? - verrebbe da pensare -. Eppure la risposta è più che semplice ed evidente: da che mondo è mondo, ma limitiamoci alla stagione in corso, l'Inter fa e l'Inter disfa, l'Inter disfa e l'Inter fa.
Il risultato di Bologna dopo Juve-Inter insegna senza neppure dover ricorrere a particolari e complesse dietrologie. Quello del Dall'Ara però non è uno scivolone isolato, e ben prima del 2-1 di due mercoledì fa ci sarebbero da sottolineare il pari col Napoli, il ko col Sassuolo e ancor di più, il peggiore, quello del derby (per citare i più clamorosi). Diciamo dunque chiaramente che se l'Inter dovesse non riuscire a cucirsi sul petto la seconda stella non è certo colpa del bersagliato Ionut Radu, colpevole senza dubbio ma non di certo l'unico. Basti guardare ai due gol di due giorni fa dell'Empoli per rinfrescare la memoria di chi probabilmente la possiede breve. Ok, refresh fatto, ma cosa c'entra? C'entra e come. La gara con l'Empoli, come Lautaro durante la gara con i toscani, nient'altro è che l'emblematica incarnazione di ciò che l'Inter è ed è stata durante la stagione: lo vinco, non lo vinco; lo voglio vincere, non lo voglio vincere. Alti e bassi, momenti di irrefrenabile imbattibilità che irrefrenabile poi non è stata, dunque momenti di depressione totale in cui tutto sembra ad un passo dal vanificarsi. Con la squadra di Andreazzoli i padroni di casa entrano in campo solo fisicamente (e anche su questo nutriamo qualche dubbio) passando in svantaggio con una lezioncina di calcio niente male confezionata dal tecnico massese che con cuore e semplici nozioni calcistiche rischia di 'infartare' i 69mila presenti e rotti di San Siro. Per venticinque minuti l'Inter si limita a spazzare e smazzare palle avvelenate senza riuscire a trovare lucidità, ordine e organizzazione che neppure il più propositivo degli undici di Inzaghi sembra riuscire a propiziare. Nada de nada: l'unico pensiero balenante tra gli spalti è un amarissimo, seppur mai pronunciato, 'è finita' che sa tanto di richiesta d'eutanasia. Accanimento terapeutico che sembra raggiungere la vetta più alta con il gol di Asllani a neanche mezz'ora di gara che sembra l'inizio di una fine lenta e dolorosa. Per una volta però il tempo non è tiranno e i diciassette minuti che separano la rete del raddoppio degli ospiti alla fine del primo tempo rallentano improvvisamente allo scoccare del 40esimo, quando Romagnoli fa tap-in alle spalle di Vicario sul velenoso cross di Dimarco che riapre ogni discorso. Tutto il resto è storia che lasciamo alla cronaca, ormai ben che nota. Il primo tempo si chiude su un risultato di pareggio che arriva a qualche secondo dal duplice fischio, arrivato poi due minuti più tardi, al 47esimo, dettaglio non da poco sul quale gli interisti (quelli che scendono in campo) dovrebbero riflettere e sul quale hanno probabilmente già tratto le prime conclusioni (si spera).
Nessuna reazione alla Nicola durante Salernitana-Fiorentina si è quindi resa necessaria per il risveglio dei brutti addormentati nel Meazza che al contrario hanno trovato un'autogena linfa vitale che ha raddrizzato gambe, schiena e testa degli uomini di Inzaghi. Come sotto effetto miracoloso dei fantastici senzu (comunemente noti come fagioli di Balzar, se non li conoscete documentatevi) l'Inter si trasforma e seppur senza mai snaturarsi esimendosi dal divorare quintali di occasioni trova finalmente la via della porta, della rete dunque della vittoria. Partita al cardiopalma? No. Non per chi c'era per quell'Inter-Empoli del 26 maggio di tre anni fa almeno, ma come da tradizione partita da reflusso gastro-esofageo e mancamenti che hanno per un attimo riesumato (con le giuste proporzioni) gli animi dei brasiliani durante il Maracanazo. Esagerazione diremmo adesso, l'altro ieri un po' meno e spiegarne i motivi è più semplice del previsto. La depressione pullulante fino alle 19.25 circa di venerdì 6 maggio è facilmente leggibile riguardando quei venticinque minuti di disastro totale che i nerazzurri sono stati capaci di inscenare, non è un caso che lo stesso Inzaghi a fine gara ha parlato di "grandissima gara a parte i primi 20-25 minuti in cui c'era troppa foga". Foga che ha annebbiato le capacità intellettive della sua squadra bloccandola in uno stato d'impasse dalla quale è stata "bravissima" ad uscirne come ha detto il piacentino, trovando però in disaccordo chi scrive.
Eh no Simone, alt! Guardando la partita, quella bravissima è stata l'Empoli a mettere in difficoltà l'Inter e non l'Inter a riprendere e ribaltare un disastro nel quale si era cacciata. Reagire ad un doppio svantaggio al 30esimo, a tre giornate dalla fine e uno scudetto che la matematica non ha ancora reso inaccessibile non è un'impresa da lodare per una squadra campione d'Italia che bazzica tra primo e secondo posto da inizio campionato. Nessuna eccezionalità né bravura: a San Siro (ma non solo) si chiama dovere. L'Inter, no, non è stata brava, non questa volta che al contrario si è esclusivamente limitata a fare il suo: dimostrare che quei 69mila presenti sugli spalti non sono degli scemi totali inebetiti dalla speranza. Non raccontiamoci e non raccontateci stronzate da provinciali, nascondersi oggi non avrebbe senso neppure sposando e benedicendo la mite linea comunicativa di Viale della Liberazione che non ha mai realmente parlato di scudetto come obiettivo primario. Non a maggio e a questo punto di stagione e classifica e al netto della lista d'impegni dietro l'angolo (finale di Coppa Italia contro la Juventus su tutti). Quattro i gol segnati alla fine dalla squadra di casa, qualcuno in meno di quelli non capitolati di cui si fa portavoce Alexis Sanchez, da poco in campo e clamorosamente a vuoto con tanto di porta spalancata davanti a sé. Scivolone (letteralmente) che il cileno si fa perdonare dopo poco con la rete che vale il punto finale del tabellino ma che non cancella gli innumerevoli "nooo" urlati dal popolo nerazzurro ad ogni conclusione sbagliata durante il corso dei novantacinque minuti.
Se è vero che il calcio toglie, il calcio dà, altrettanto vero è che la regola non è sempre applicabile, specie ad Inter-Empoli perché no, cari interisti e caro Inzaghi, la vittoria con l'Empoli non è stato un regalo del karma tantomeno l'impresa da bravissimo in pagella bensì un doverosissimo atto di gratitudine che gli undici in campo hanno pronunciato verso tifosi e verso se stessi. "Posso accettare di fallire, chiunque fallisce in qualcosa. Ma io non posso accettare di non tentare" diceva Michael Jordan, uno che di cosette ne ha vinte, e allora sì, potremmo pure accettare di perdere lo scudetto e di applaudire i cugini nel caso alla fine si dimostrino più bravi di noi (con onore, cuore e anima che andrebbero lodati), ma non senza aver tentato di vincerlo. "Una squadra esperta come la nostra non deve prendere quei due gol" è la frase giusta della quale far tesoro e monito nella speranza e anche, concedetemelo, pretesa che non si verifichino più "venticinque minuti" (come quelli iniziali con l'Empoli o quelli finale del derby).
Con l'Empoli come in questo finale di stagione, pazza Inter sì, bravissima no: rimontare era un dovere, provarci fino all'ultimo un obbligo.
Autore: Egle Patanè / Twitter: @eglevicious23
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