“Forza Inzaghi,
spiaze pure a noi,
spiaze pure a noi,
ora sono c…i tuoi”.
Cantando dagli spalti del Tardini di Parma sulle note di ‘Dragostea Din Tei’, brano di un gruppo moldavo denominato O-Zone finito però alla ribalta grazie alla cover della cantante italo-rumena Haiducii, che lo fece diventare uno dei tormentoni musicali dell’anno 2004 nel nostro Paese, la Curva Nord dell’Inter ha voluto ribadire il suo sostegno incondizionato al nuovo allenatore nerazzurro. Giocando un po’ sul suo accento piacentino che porta la c a diventare una sorta di zeta, ma soprattutto mettendoci un velo di amara ironia sul cammino accidentato che rischia di presentarsi davanti ai suoi occhi, in quella che probabilmente è la chance più importante della sua carriera dopo aver preso l’ardimentosa decisione di abbandonare la sua ‘comfort zone’ di Formello e dintorni.
Sempre sulle note del trascinante motivetto, i tifosi interisti hanno lanciato un altro nuovo coro, questa volta meno leggero e decisamente dal sapore beffardo e provocatorio, nei confronti di Steven Zhang, individuato ormai come il nemico pubblico numero uno, colui che ha avuto l’incredibile capacità di trasformare la gioia per la conquista di uno Scudetto atteso da undici anni dal popolo nerazzurro in un perenne stato di ansia per il tremendo stato di salute delle finanze della casa madre che ha portato in poche settimane a colpire la squadra togliendole alcuni, forse i principali pilastri di quell’organico dall’alchimia incredibile. Vuoi per scelta come nel caso di Antonio Conte, vuoi per necessità primordiali come avvenuto per Achraf Hakimi, ma a fatica vuoi per il fulmine a ciel sereno scaricatosi su Viale della Liberazione e che, nello spazio di appena qualche giorno, ha portato via dalle braccia di Inzaghi Romelu Lukaku: il gioiello più pregiato, il bomber, il leader, il trascinatore, il totem intorno al quale era rinato un interismo nuovo, sradicato dal suolo milanese che diceva di governare come un re.
Probabilmente, Lukaku avrà sentito e fatto sua la profezia di Faruq I d’Egitto, che durante una conferenza al Cairo nel 1948, annusando nell’aria la fine della sua monarchia, ebbe da dire che di lì a poco sarebbero rimasti nel mondo cinque re: quelli delle carte francesi (cuori, quadri, fiori, picche) e il re d’Inghilterra. E percependo anche lui il sentore di un reame che stava per crollare sotto i suoi piedi, il gigante di Anversa ha preferito cogliere l’occasione di diventare sire lì dove era stato ripudiato, in quella Premier League dove arrivò troppo presto, dove non ha mai saputo esprimersi al massimo delle sue potenzialità e dove, soprattutto, si garantirà un bel pieno di denaro fresco nelle sue tasche. E così, ecco Lukaku lasciare in maniera poco regale, quasi alla chetichella, il suo vecchio feudo, e arrivare in riva al Tamigi con un’accoglienza che di regale ha avuto ben poco, anche considerato il suo arrivo nel giorno in cui tutto il Chelsea era impegnato a Belfast per la Supercoppa Europea, lì dove a guardare la formazione schierata da Thomas Tuchel, diventa facile presagire che la scalata al trono di BigRom non si presenterà forse così semplice.
Ma se in silenzio Lukaku ha lasciato l’Italia e in silenzio Lukaku è arrivato in Inghilterra, tanto, troppo rumore ha scatenato il suo gesto, la sua partenza improvvisa. E soprattutto, ha scatenato un’inevitabile caccia alle streghe dalla quale nessuno è stato risparmiato a parte il povero Inzaghi: nel mirino sono finiti i dirigenti, in primis quel Beppe Marotta che però si può definire vittima allo stesso qual modo del tecnico, perché la convinzione di non vendere Lukaku non era solo una promessa verbale ma una volontà concreta, e il primo a essere irretito da questa situazione, ancor prima che il mister, è proprio lui. Ma, inevitabilmente, tutta la rabbia è rivolta verso Suning e la famiglia Zhang, che ha fatto pesare oltre la soglia del lecito i propri guai in patria, facendo passare messaggi pericolosi circa l’effettivo interesse verso la società comprata tra grandi squilli di tromba solo cinque anni fa, quando in Cina il calcio era un asset primario dei piani governativi, e ora lasciato all’addiaccio e alla furia delle intemperie ora che gli investimenti dello sport sono stati fortemente ridimensionati dall’alto.
Inaccettabile, inammissibile, irrispettoso della storia e del blasone del club questo atteggiamento così troppo passivo, agli occhi di tutti. Anche se, ormai è chiaro a tutti, sono pochi e ben selezionati i padroni del vapore calcistico in grado di permettersi dei lussi in una situazione socio-economica così disastrosa, dove il male Super League viene superato dal male di un oligopsonio di tanti venditori e pochissimi acquirenti, dove nuovi mecenati disposti ad entrare in quello che ormai agli occhi dell’imprenditoria è visto come un vero e proprio gioco al massacro non ce ne sono, e dove nemmeno le ricapitalizzazioni sono alla fin fine un motivo di pura gioia.
Sono andati via pezzi pregiati e siamo a dieci giorni dall’inizio del campionato, venti prima della chiusura del mercato che dovranno essere sfruttati freneticamente, volenti o nolenti. La prima mossa è stata fatta: ad ereditare il nove di Lukaku all’Inter sarà Edin Dzeko, arrivato dalla Roma. È la fine di un inseguimento durato tanti, forse troppi anni, al punto da arrivare a concretizzarlo quando l’età del bosniaco non è più verdissima e qualcuno vede materializzarsi lo spettro di un Batistuta-bis. Ma in una Serie A dove l’aspetto della carta d’identità assume ormai un peso sempre più relativo, si fa anche presto a pensare che alle condizioni nelle quali è arrivato, il cigno di Sarajevo rappresenti in un certo qual modo l’alternativa migliore possibile per turare immediatamente la falla lasciata dall’addio di Lukaku, in attesa di altri acquisti.
Altri acquisti che, quando le voci riusciranno a diventare in qualche modo di realtà, dovranno inevitabilmente fare i conti con un gioco tanto brutto quanto reso necessario dalle contingenze: quello delle pietre di paragone con il recentissimo passato. E allora, forse, è meglio sgomberare il campo da ogni dubbio e partire da un presupposto: chiunque arriverà, sarà sempre identificato, ben che gli vada, come l’alternativa più simile ma mai fedele alla versione originale. Perché un Duvan Zapata può garantire fisicità, presenza in area e un certo quantitativo di gol, ma non sarà mai Lukaku; e nessuno, probabilmente, si sognerà di dire che un Denzel Dumfries possa essere colui che nella memoria dei tifosi andrà a scalzare Hakimi. Il tutto senza più toccare l’argomento Nahitan Nandez, per il quale è più lecito attendere fino allo sfaldamento della resistenza, per alcuni versi anche autolesionista, della dirigenza del Cagliari.
Sta forse anche in questo l’ironico ‘c…i tuoi’ che la Nord canta a Simone Inzaghi: il dover rassegnarsi all’idea di non avere con sé due colonne che hanno fatto grande l’ultima Inter. Ma è sicuramente anche in questo la grande sfida che il tecnico nerazzurro dovrà accettare: rendere i potenziali ‘meno peggio’ perfettamente funzionali ad un’idea di gioco diversa, che rifugga anche dal luogo comune del tipo: “Il gioco dell’Inter? Otto volte su 10 palla a Lukaku”. I prodromi visti in queste prime amichevoli sono senza dubbio interessanti, ma il lavoro è solo all’inizio: Inzaghi ha tutto il diritto e il dovere di completarlo. Senza ansie né paure. E senza lasciarlo solo nella trapattoniana centrifuga interista.
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