Che dire, il giorno dopo quel retrogusto amaro per quanto visto a Praga giovedì sera non si è ancora alleviato. Non che ci si debba strappare i capelli (i miei sono pochi e, pertanto, preziosi), la qualificazione ai sedicesimi di Europa League è ancora raggiungibile anche se particolarmente complicata e nonostante lo zero e il fondo della classifica nel gruppo K facciano un certo effetto. L’amarezza consiste nell’aver trovato conferma a un fastidioso dubbio alimentatosi dopo l’esordio contro l’Hapoel Be’er Sheva: le seconde linee dell’Inter non sono all’altezza delle rinnovate ambizioni di questa squadra. Terrei però a precisare un concetto: non mi riferisco al singolo, ma al gruppo. Quando il back office viene schierato in massa, l’esito è scoraggiante.
E meno male che il buon Frank de Boer, non più tardi di domenica scorsa, aveva ammesso che avrebbe attinto meno dalla panchina per la partita di coppa. In realtà, vuoi per assenze forzate, vuoi perché tre giorni dopo si va all’Olimpico, la prudenza ha prevalso nelle scelte dell’olandese. Ranocchia, Miangue, Melo, Gnoukouri, Palacio ed Eder: 6/11, in linea di massima, provenivano dalla panchina. Più della metà. Troppi. Presi singolarmente, e inseriti in un contesto più rodato e di qualità media superiore, alcuni (sottolineo, alcuni) di loro possono essere un valore aggiunto. Ma insieme no, e lo si è visto in entrambe le partite di Europa League.
Non scopro l’acqua calda se sottolineo l’approccio inguardabile con cui l’Inter è scesa in campo al Letnà Stadion. Neanche un accenno dell’ormai famoso pressing deboeriano, giro palla lento e prevedibile, errori tecnici e tattici in quantità industriale, difesa spesso e volentieri fuori posizione. E quel secondo gol che ti viene voglia di prendere tutti a calci nel sedere. Roba che neanche in estate contro una selezione del Trentino. Purtroppo trattasi di impegno ufficiale in una competizione internazionale, quella a cui la società nerazzurra doveva a tutti i costi partecipare vuoi per immagine vuoi per introiti. Se però è questo il modo di affrontarla, tanto vale restarsene a casa a guardare la tv, come capita ai giocatori dell’altra sponda del Naviglio, che quanto meno non sprecano energie psico-fisiche in giro per l’Europa, rimediando poi pessime figure che poi rimbombano sui media nazionali (quanto godono…) ed esteri.
Mi rendo conto delle necessità di De Boer di gestire le energie, ma lo stesso tecnico di Hoorn ha dovuto ammettere la pochezza della prestazione dei giocatori da lui chiamati in causa. Senza giri di parole, ha evidenziato come dei professionisti non possano incappare in prestazioni collettive di questo genere. Un concetto che sposo appieno, così come altri che lo hanno preceduto nei giorni scorsi. Pane al pane, vino al vino, fa bene De Boer a chiamare le cose con il loro nome, che sia in italiano, in inglese o nel creolo da lui stesso forgiato. Questo però non basta.
Richiamare i giocatori alle proprie responsabilità non ha portato i propri frutti e il secondo scivolone europeo non è tardato. Servono decisioni, anche drastiche e rischiose, come proporre sin dalla prossima partita contro il Southampton (spartiacque tra qualificazione e inopinata eliminazione) un undici all’altezza della competizione. Privo sì degli esclusi dalla lista UEFA, ma il più vicino possibile a quello che i fantacalcisti approverebbero. Che poi, diciamocelo, l’unico titolare rimasto fuori per regolamento è Joao Mario. Assenza non da poco nell’equilibrio del centrocampo, ma digeribile soprattutto se l’istrionico Brozovic tornerà con i piedi per terra e a fare ciò che gli viene meglio sul campo di calcio.
Basta giustificazioni, dunque. D’ora in avanti scenda in campo la miglior Inter possibile, a prescindere da avversario e torneo e al netto di squalifiche e infortuni. I bonus delle brutte figure ce li siamo già giocati con largo anticipo, e in Europa pesano il doppio. Poi, a gennaio, quando ci sarà da ritoccare la rosa, Suning faccia quello che va fatto. Senza esitazioni.
Autore: Fabio Costantino / Twitter: @F79rc
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