Oggi il Corriere dello Sport pubblica in anteprima un estratto dell'autobiografia di Francesco Acerbi, fatica editoriale alla quale ha partecipato scrivendone la prefazione Ivan Zazzaroni, il direttore del quotidiano romano. Un libro che parla di calcio, ma anche e soprattutto dei momenti delicati della vita del difensore dell'Inter: dal rapporto con l’alcol al tumore. Ecco quanto anticipato sul CdS:
"Quando è arrivata la chiamata dell’Inter, nel 2022, molti hanno storto il naso. C’era chi parlava di «giocatore a fine corsa», chi sottolineava l’età, chi si chiedeva se fossi ancora all’altezza di un club così. Lo so bene. Non è facile far cambiare idea a chi ha già deciso chi sei. Nel calcio funziona così: ti incasellano, ti etichettano e poi si aspettano che tu resti sempre lì, all’interno di quella definizione. La memoria è spesso corta: conta più l’ultima stagione che tutta la strada fatta prima.
Io invece quella chiamata l’ho vissuta come un segnale. Alla Lazio, allenata da Sarri, non avevo avuto una stagione brillante e, in più, con parte della tifoseria c’erano state incomprensioni. Sapevo di essere arrivato a un bivio: o accettavo di scivolare lentamente verso il tramonto, o mi rimettevo in gioco davvero, senza alibi. Dopo tutto quello che avevo passato – la malattia, la rinascita, la Nazionale – sentivo di essere pronto. Non per dimostrare qualcosa agli altri, ma a me stesso.
Si era parlato di un interesse da parte del Napoli, del Marsiglia, ma quando arrivò la chiamata dell’Inter sapevo che era quella giusta. Mi dissi: “Francesco, questa è la tua occasione per giocare nel club che hai sempre guardato con rispetto, quasi con soggezione. Ora sei qui. Tocca a te”.
La maglia nerazzurra l’avevo vista per anni da avversario. Con rispetto, sì, ma anche con quel pizzico di timore che è d’obbligo quando affronti squadre abituate a giocare per vincere. Mi chiedevo: “Chissà come dev’essere stare lì dentro, respirare quell’aria ogni giorno”. Poi, all’improvviso, ci sono entrato. E la realtà era ancora più intensa di quanto avevo immaginato. Più bella, ma anche più dura. Perché all’Inter non basta esserci: devi meritartelo ogni giorno.
L’approccio non è stato semplice. Quando entri in uno spogliatoio come quello nerazzurro, ogni sguardo pesa. Lì si respira ambizione, si sente la pressione delle aspettative. Devi dimostrare subito di essere all’altezza, anche se hai esperienza, anche se hai un passato importante. Non basta quello che hai fatto prima. Conta quello che fai adesso.
Non mi sono mai tirato indietro. Ho ascoltato, osservato, e poi ho cominciato a parlare il mio linguaggio: quello del campo. L’allenamento, la concentrazione, la corsa.
Giorno dopo giorno, ho lasciato che il mio modo di stare dentro il calcio parlasse per me. Mi sono guadagnato la fiducia di Inzaghi e quella dei compagni. Non con frasi a effetto, ma con la serietà, con la coerenza, con l’affidabilità. Quando sai che puoi contare su qualcuno, lo capisci in silenzio. E io volevo essere esattamente quello: uno su cui poter contare, senza fronzoli.
Inzaghi mi conosceva dai tempi della Lazio. Mi aveva voluto perché sapeva chi ero. Non tanto tecnicamente – quello lo possono valutare tutti – ma come uomo. E questo per me ha fatto la differenza. Sapere che c’era qualcuno pronto a scommettere su di me, ancora una volta, mi ha dato forza.
Ho imparato a non aspettarmi applausi, né a cercarli. Quando arrivi in un club come l’Inter a trentatré anni, devi essere pronto a sentire il giudizio addosso ogni domenica. Sapevo che il tifoso nerazzurro è esigente, si aspetta sempre il massimo da chi indossa quella maglia. Io non chiedevo altro: ero lì per giocare, non per essere giudicato.
A poco a poco la gente ha cominciato a capirlo. Hanno visto che non ero lì per occupare spazio, ma per guadagnarmelo. Hanno capito che non avevo paura di metterci la faccia. E che, ancora una volta, ero pronto a fare la mia parte.
La stagione 2022-2023 è stata un’avventura sportiva che difficilmente dimenticherò. Non solo per i risultati, ma per l’energia che si è creata attorno alla squadra. Non è stato tutto facile, abbiamo avuto alti e bassi, come succede sempre. Ma quando un gruppo è vero, non si rompe nei momenti difficili. Si stringe. E noi lo abbiamo fatto. Quando un gruppo tiene, anche i momenti di crisi diventano prove superabili.
Giocare al fianco di gente come Barella, Bastoni e Darmian, condividere il reparto con Škriniar e de Vrij, vedere in campo Brozović, Džeko, Handanovič, sentire ogni partita come una missione collettiva è stato esaltante. Ci si capiva al volo. Bastava uno sguardo, un gesto con la mano e sapevamo già cosa fare. In campo, era sufficiente uno sguardo per capire dove andava la palla. Non servivano parole. Il meccanismo difensivo funzionava perché ci fidavamo l’uno dell’altro.
Quello che ci ha portati a fare il salto di qualità, però, è stato lo spirito. Non c’erano divisioni, non c’erano primi della classe e gregari: tutti facevano tutto. Se serviva correre dieci metri in più, si correva. Se serviva stare zitti e abbassare la testa, lo si faceva. Nello spogliatoio non esistevano ruoli gerarchici: esistevano solo uomini che volevano vincere".
Autore: Alessandro Cavasinni / Twitter: @Alex_Cavasinni
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