"Sulla panchina dell’Inter è arrivato un interprete di talento, Antonio Conte. Un bravo allenatore che ora deve dimostrare d’essere un grande allenatore". Inizia così l'approfondimento dell'interista Beppe Severgnini sulla pagine del Corriere della Sera. "L’occasione è irripetibile, la trama, perfetta: l’eroe deve portare sul trono la beneamata (di Milano), spodestando la vecchia signora potente (di Torino), che un tempo era la sua padrona. Se Shakespeare avesse giocato a calcio, avrebbe scritto qualcosa del genere. Ma l’Inter, si sa, è un’espressione artistica (la Juventus è un processo industriale, il Milan una nostalgia popolare, il Napoli una forma religiosa). La panchina nerazzurra consente virtuosismi e provoca cadute: quanti ne abbiamo visti, di questi e di quelle. Là sopra è passato di tutto, come in un teatro. Antonio Conte — Tony sarebbe più adatto al set e al palcoscenico — è un nome di richiamo: il pubblico, non solo quello interista, ha già acquistato i biglietti mentali, prima di procurarsi quelli dello stadio. Che sia passato dalla Juventus, e l’abbia aiutata a vincere, è irrilevante: vale anche per Jo Marotta, che lo ha voluto a Milano. Steven Zhang, che è un giovanotto intelligente, lo sa benissimo. Allenatori come Arsène Wenger e Alex Ferguson — una vita all’Arsenal e al Manchester United, rispettivamente — sono eccezioni: tutti gli altri vanno dove li porta il cuore, che nei professionisti non è mai troppo distante dal portafoglio. L’importante è che s’impegnino, portino risultati e interpretino bene la parte. Che siano buoni attori, in sostanza. E queste qualità, a Tony Conte, non mancano. Provate a immaginare Carlo Ancelotti che cerca di scalare la panchina, come l’orso Baloo a caccia di un favo di miele sulla roccia. Pensate a un euforico Roberto Mancini che si butta sul centravanti e rimedia una ferita lacero-contusa. O a Gasperini, irritato per un contropiede fallito, che tira una cannonata al pallone scivolato in fallo laterale. Non ci riuscite? Certo. Perché queste cose non le ha fatte né Ancelotti, né Mancini, né Gasperini. Le ha fatte Conte in due partite degli Europei, tre anni fa. L’allenatore spagnolo Vicente del Bosque sembrava una mummia, annoiata dal passaggio dell’ennesima scolaresca al museo egizio. Tony Conte, a pochi metri di distanza, prendeva la pioggia, metteva il cappello, toglieva il cappello, si sbracciava, alzava gli occhi al cielo, correva avanti e indietro nell’area tecnica come un criceto allarmato. Uno spettacolo nello spettacolo. L’allenatore spesso rappresenta la parte razionale del calcio: una figura paterna, un cuscinetto tra l’irruenza giovanile dei giocatori, l’isteria di noi tifosi, gli eccessi di alcuni presidenti. Misurato nella vittoria, contenuto nella sconfitta, costituisce una garanzia e una sicurezza. Ma Tony Conte non è un padre: è uno zio irascibile e, a suo modo, irresistibile. Forse l’interessato non è soddisfatto di queste esibizioni, magari se ne vergogna un po’. A partita finita, durante le interviste, cerca di apparire diverso, ma lo sforzo è evidente. La tempesta emotiva viene fuori da ogni smorfia, da ogni sguardo, dai cambi di tono, dalla scelta dei vocaboli. «Questi ragazzi hanno qualcosa dentro», «Io insegno calcio», «Impresa titanica». Conte è incontentabile, incontenibile e — oggi — incontestabile: una gioia per i titolisti, una manna per Maurizio Crozza. Tony Conte era così a Siena, a Bari e a Torino. Era così in Nazionale. Vedremo se gli anni di Londra lo hanno cambiato. L’Inghilterra rimane addosso in ogni professione, compresa quella dell’allenatore (pensate a Vialli, Zola, Ancelotti, Ranieri). Ma confesso: fatico a immaginare Conte flemmatico e britannico, al di fuori delle occasioni ufficiali. In fondo, il suo addio al Chelsea è stato pirotecnico, come alcune relazioni nel biennio londinese (David Luiz e Diego Costa, che Conte in conferenza-stampa liquidò con una risata fino alle lacrime). Vedrete: sul palcoscenico nerazzurro non andrà in scena una commedia sonnolenta, ma uno spettacolo avvincente. Noi aspettiamo Godot. Dal 2010, ormai".
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