Inutile girarci intorno: sarà quasi impossibile dimenticare quello che è successo martedì. Impossibile levarsi dagli occhi e dalla mente la girandola pazzesca di emozioni, l’altalena del risultato, quel tap in maledetto di Raphinha che sembrava aver chiuso i giochi portando più di uno anche a lasciare improvvidamente lo stadio ma che invece ha solo stuzzicato il cuore e il carattere dei nerazzurri, su tutti quel Francesco Acerbi che decide di buttarsi lì davanti e vede il suo spirito battagliero premiato con la zampata che vale il 3-3 e che genera nella mente di coloro che erano già fuori dei cancelli la consapevolezza di aver commesso uno degli errori più grandi della loro vita. Fino all’apoteosi firmata Davide Frattesi che se avesse potuto si sarebbe arrampicato fino al terzo anello verde per poter urlare con tutti, con quelle vene del collo talmente gonfie e quell’urlo di gioia che rimarrà probabilmente la diapositiva migliore delle emozioni del popolo nerazzurro.
Cinque giorni sono passati, eppure è impossibile anche solo pensare di uscire da quel sogno. E infatti, tutta questa settimana è stata all’insegna praticamente di un unico leit motiv di tre parole: Monaco di Baviera. Lì dove, il 31 maggio, l’Inter di Simone Inzaghi si giocherà per la seconda volta in tre anni la possibilità di alzare al cielo il trofeo della Champions League, il più importante a livello di club in ambito continentale. Di fronte, ci sarà il Paris Saint-Germain, alla sua seconda finale di Champions ma in senso assoluto dopo il tentativo andato a vuoto nel 2020. Ovvio, avversario temibile, diventata negli anni una vera squadra di calcio e non una mera raccolta di figurine, plasmata molto bene dal tecnico Luis Enrique; ma che forse, non si presenta all’atto finale con la stessa aura che magari aveva quel Manchester City avversario di Istanbul, che sembrava un colosso inavvicinabile e invece l’Inter ha affrontato occhi negli occhi uscendo sconfitta solo per un guizzo di Rodri, con l’immagine di Pep Guardiola in ginocchio dopo un pericolo scampato che rimarrà anch’essa ben impressa a lungo.
Da quando è arrivato il triplice fischio della partita del Parc des Princes mercoledì scorso che ha sancito la vittoria del PSG sull’Arsenal, ma volendo già nelle ore precedenti, il mondo è sembrato girare solo ed esclusivamente intorno a quella data, quel luogo, quell’evento; Paris Saint-Germain-Inter, in rigoroso ordine ‘burocratico’, è diventata praticamente il fulcro di ogni discorso. Discorsi dei tifosi, che si sono già messi in paziente fila per riuscire a strappare un agognato biglietto che aprirebbe loro le porte di una serata forse magica a prescindere poi si vedrà (certo, la quota di tagliandi destinata a ciascun club, soprattutto a chi ha dimostrato di poter praticamente riempire contemporaneamente due San Siro vista la lista d’attesa per la partita col Barça, è alquanto risibile). E anche discorsi dei media, degli addetti ai lavori come degli opinionisti, in Italia e all’estero, che hanno già cominciato a riempirci la testa con le loro sensazioni, chiavi di lettura, visioni su questo match.
Il popolo interista è ormai entrato a pieno regime dentro questo mondo così ovattato e idilliaco, che sembra quasi un fastidio il fatto di aver aspettare venti giorni ancora per poter assistere alla partita delle partite. E si vive quasi come uno shock il fatto che questa sera si torna a parlare di campionato. Quel campionato che ormai agli occhi di buona parte dei tifosi sembra diventato più una scomoda parentesi di grigia realtà: le poche giornate alla fine, i tanti errori commessi nel cammino, quel distacco dalla vetta che è di soli tre punti ma che sembra stagliarsi alto e insormontabile come una montagna che puoi scalare solo a mani nude, anche le dichiarazioni alla melassa di apprezzamento verso la contendente, anzi ormai la scudettata in pectore, sembrano aver tolto qualsiasi hype intorno all’eventuale bis tricolore.
Sensazione che però non appartiene per natura a Simone Inzaghi. Il cui diktat, dopo la vittoria sul Barça, è stato chiarissimo: è finita si dice solo alla fine. Perché tre punti di distacco sono solo una partita rispetto alla prima in classifica, e anche se è molto difficile pensare che il Napoli di Antonio Conte possa accusare delle battute d’arresto proprio sul rettilineo finale, bisogna essere pronti a piombare sulla preda se questa dovesse anche inavvertitamente inciampare. A partire dalla gara di questo pomeriggio contro il Torino di Paolo Vanoli, partita che si affronterà coi dovuti accorgimenti a livello tattico e di formazione, considerate in primo luogo le assenze per problemi fisici di varia natura. Inevitabile per Inzaghi cercare di bilanciare la volontà di continuare a inseguire la chimera Scudetto con la necessità di preservare le forze per la partita dell’Allianz Arena; compito arduo, ma col quale alla fine si è saputo sempre barcamenare quando c’è stato bisogno. Perché nella sua testa nulla va lasciato di intentato, e anche se sarà una stagione da ‘zero tituli’ dopo che nemmeno fino a poco tempo fa si parlava di nuovo Triplete, bisogna lasciare sul campo tutto quello che si ha, in ogni circostanza, senza avere rimpianti o rimorsi di sorta.
Torniamo per un attimo al fatto della settimana, soprattutto al contorno della partita tra Inter e Barcellona. Perché sono perfettamente comprensibili le cosiddette ‘rosicate’ dei non interisti che non sopportano l’idea di vedere l’avversaria per antonomasia giocarsi la possibilità di sedersi sul trono d’Europa (anche se buona parte del tifo avverso ha avuto parole di elogio, va detto); del resto, si tratta del gioco delle parti da tifosi ed è una delle regole non scritte del vivere questo sport che vale anche oltreconfine. Come classificare altrimenti lo striscione ‘Grazie Inter’ apparso davanti a Valdebebas, casa del Real Madrid, attaccato da qualche buontempone tifoso delle Merengues, oppure il conflitto interiore che pervade la città di Marsiglia, passando sul fronte francese. Meno comprensibili, invece, le polemiche che si sono riversate contro Fabio Caressa e Beppe Bergomi, la cui unica colpa è stata quella di prodigarsi in una telecronaca troppo partigiana quando i telecronisti di tutto il mondo si sono fatti trascinare dalle emozioni di una partita storica arrivando addirittura alle lacrime.
E addirittura irritanti, per non dire nauseanti, sono state le dichiarazioni arrivate dal fronte barcelonista, una litania scattata praticamente dall’immediato postpartita. Accuse contro tutto e tutti, a partire chiaramente dall’arbitro Szymon Marciniak bersagliato già al momento della designazione, e provenienti da ogni lato, dai giocatori alla stampa fino alla dirigenza e al presidente Joan Laporta, che hanno avuto modo addirittura di lamentarsi del fatto di essere stati ‘costretti’ a vedere la partita non in uno spazio riservato ma in tribuna insieme ai tifosi; nemmeno fosse stata questa la prima volta nella quale ha assistito ad un match al Meazza. Che accettare in modo sereno una sconfitta non facesse propriamente parte della filosofia blaugrana se ne è avuta ampia dimostrazione nel 2010, ma ora più che mai, ripensando all’andamento della gara, non è forse arrivato il caso di passarsi un po’ la mano sulla coscienza all’ombra della Sagrada Familia?
Autore: Christian Liotta / Twitter: @ChriLiotta396A
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