Si esaurisce quest’oggi la tre giorni di kermesse tenutasi in quel di Parma che prende il nome di ‘Festival della Serie A’, momento di autocelebrazione prima ancora che di promozione del campionato italiano arrivata a pochi giorni dalla conclusione di uno dei tornei più incerti e con la quota più al ribasso a livello di punti della storia recente, dove il Napoli di Antonio Conte ha portato a casa il quarto Scudetto della sua storia, sul quale tante, forse troppe, disamine, sono state già fatte. È stato nella sostanza un festival che ha risposto in pieno alle aspettative, specie in tema di dichiarazioni: una sorta di ‘fiera della vanità’ dove abbiamo sentito tutti i protagonisti bearsi di quanto è bello e combattuto il nostro campionato, di come faccia conoscere altri brand, di cinque vincitori diversi nelle ultime sette stagioni, di voler essere trampolino di lancio di nuovi talenti und so weiter und so fort (eccetera, eccetera, per chi non mastica il tedesco)…
Tutto molto bello, peccato però che basta mettere il naso appena fuori da questo microcosmo di magia, fanfare e cotillons e si arriva a scontrarsi con una dura realtà. Quella che, complice un po’ anche l’esaltazione che fa molto sciovinismo per il primo trionfo in Champions League del Paris Saint-Germain che in quell’infausta serata di fine maggio ha brutalizzato a proprio piacimento l’Inter infliggendole una sonora lezione di calcio nel gioco prima anche che nel mortificante risultato, un magazine francese che fa della sagacia puntuta una delle sue cifre stilistiche ma questo va asserito indubbiamente come un proprio merito allorché tale uso dell’ironia è legittimato dalla correttezza dell’analisi dei fatti e delle opinioni, analizza in modo pesante e disarmante: un torneo che vaneggia di sentirsi tra i primi quattro d’Europa ma che in realtà le Coppe europee quest’anno le ha viste alzate dagli altri e dove i potenziali talenti transitano senza troppi sentimentalismi e dove vengono accolti giocatori ‘in prepensionamento’ o autentici pacchi (cit.). E nel mentre, ci tocca anche vedere la Nazionale, quella che dovrebbe essere l’espressione della massima qualità del movimento locale, bistrattata malamente dalla Norvegia, nemmeno dall’Argentina o dalla Spagna con tutto il bene per gli scandinavi, con la terza qualificazione ai Mondiali già andata in malora, e i primi commenti che tocca sentire sono relativi alla stanchezza e al rischio di vedere una fascia sempre più ampia di bambini privati dell’opportunità di vedere l’evento più importante del mondo del calcio, quando non ‘regolamenti di conti’ più o meno impliciti tra opinionisti. Come fanno a non cadere le braccia?
Tornando al principio del discorso, il Festival della Serie A è stato anche il festival del politichese applicato al calcio, e in questa speciale sezione spiccano in particolare le parole del presidente dell’Inter Beppe Marotta. Che si è ritrovato suo malgrado al culmine di una settimana a dir poco da incubo per tutto il mondo nerazzurro, prima sul campo e poi in sede coi ben noti fatti. Marotta che ha dovuto per impegni già fissati legati al calendario di questo Festival lasciare il tavolo delle trattative e occuparsi della faccenda forse più delicata e indesiderata: dare una spiegazione a ciò che è successo. Balzando qua e là tra i pulpiti mediatici nei quali è stato chiamato a pronunciare il proprio discorso, Marotta si è esibito in un altro festival, quello del ‘marottese’: dicesi ‘marottese’ concentrato di arzigogoli (per non usare termini da ‘Amici Miei’) volti, più che a dare spiegazioni, a indorare la pillola e a rendere legittima la scelta di Cristian Chivu come successore di Simone Inzaghi sulla panchina dell’Inter. E allora, via al profluvio di: “Essere arrivati secondi in Champions League non è un fallimento ma motivo d'orgoglio”, “Inzaghi ha preso questa decisione solo il lunedì successivo alla sconfitta col PSG”, “Chivu è il profilo più adatto per quelli che sono i nostri obiettivi”, “Non ci è stata data l’opportunità di puntare Fabregas”.
Tutti convinti? Verrebbe da dire di no. Anche perché nei lunghi discorsi di Marotta è mancato sostanzialmente un punto chiave: perché si è scatenato nel giro di pochi giorni questo tornado, che è riuscito a ribaltare completamente la percezione intorno all’Inter nell’arco di poche settimane come nemmeno Alessandro Borghese nel suo famoso show televisivo? E soprattutto, come non può stridere nelle orecchie sentir parlare di decisione che ha colto di sorpresa tutti, quando la palla di neve era già ben visibile all’orizzonte mentre scivolava irreversibilmente verso valle trasformandosi in valanga? Fatto salvo il concetto che quello che si reputa un grande club non può concedersi il lusso di usare l’alibi dell’essere stati colti alla sprovvista per nessun motivo, anche perché gli effetti di circostanze simili possono essere devastanti come purtroppo si è sperimentato sulla propria pelle in quel lontano 2011.
Parliamoci chiaro, questi giorni hanno rappresentato il superamento di una nuova soglia storica dell’interismo, dell’isterismo o dell’intertristismo a seconda di come si vuol leggere la cosa. Monaco di Baviera è stata una Caporetto che ha lasciato segni profondi sotto ogni aspetto. E di questa situazione attuale sono responsabili un po’ tutti. In primis, va detto, lo stesso Inzaghi, che al di là di alcune brutte rappresaglie del quale è stato fatto oggetto dopo la decisione di lasciare l’Inter ha errato nel lanciare quel guanto di sfida già il lunedì precedente la finale parlando di offerte effettivamente presenti, segnale che forse nella sua mente l’idea di salutare la compagnia era ben chiara al di là delle frasi di circostanza. Legittimo il sentimento di stanchezza dopo quattro anni logoranti sotto tutti gli aspetti e meno generosi a livello di trofei di quanto ci sarebbe aspettato, come la volontà di godersi il bel bonifico garantito dall’Al Hali; ma la forma nel quale si è consumato tutto ciò lascia una sensazione poco gradevole, al di là della non volontà di provare a restare per riscattare la serata infame e lasciare che la sua storia all'Inter si chiudesse col marchio funesto.
Una fetta di responsabilità va anche ai giocatori, ai quali si può concedere l’alibi dello stato fisico decisamente precario come si è desolatamente visto anche venerdì con la Nazionale, ma che lasciano il sospetto di aver in qualche modo subodorato la situazione e, forse frustrati dalla prospettiva di perdere un tecnico che ha voluto loro un bene dell’anima, di non essere stati capaci di trovare in loro stessi un moto d’orgoglio anche solo per evitare di fare la fine del sorcio al cospetto di una squadra che non ha avuto poi un carico di partite così inferiore ma che ha saputo gestirsi meglio e alla fine correva per cinque rispetto agli avversari (e particolare non da poco, arrivava da dei trofei già vinti e non da altre rincorse sfumate). Le scuse e i proclami social, arrivati con tempi diversi, servono a poco. Infine, c’è il manico: una dirigenza che parla di situazione imprevista perde già parecchi punti, a peggiorare poi la situazione è stata la dimostrazione di scarse doti di crisis management offerta: al di là dei nomi vagliati, segnale di una Serie A dove gente come Jurgen Klopp non verrebbe nemmeno per tutto l’oro del mondo, non è piacevole subire la dimostrazione di forza del presidente del Como che blinda il suo asset prezioso (in tutti i sensi, essendo Cesc Fabregas allenatore e azionista), mandando in fumo a priori quella che era la tua prima opzione. A meno che non si trattasse di un’operazione ‘specchietto per le allodole’…
“Chivu non è un ripiego”, si è affrettato a dire Marotta. Chivu al quale va fatto l’in bocca al lupo più grande, lui che da domani comincerà il suo lavoro in vista di questo Mondiale per Club. Perché trattasi di una grande scommessa, di quelle che all’Inter se riescono sono capaci di risultati fragorosi ma se vengono fallite allora apriti cielo. Chivu figlio di una scelta dettata quasi da una fobia, il ‘terrore del vuoto’, che improvvisamente ha colto Marotta e l’Inter tutta. Adesso, però, vanno colmati tutti gli altri vuoti per costruire una rosa che sappia rispondere ai buoni propositi di volontà di continuare sulla strada tracciata dal Demone di Piacenza. E sperare che l’horror vacui, alla lunga, non colga altri elementi che possano improvvisamente fremere per colmare questi vuoti altrove.
Autore: Christian Liotta / Twitter: @ChriLiotta396A
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