Ci sono mille sfumature tra le lettere della parola 'vincere'. Il mondo del calcio lo ha riscoperto nella settimana che è cominciata con la proclamazione del Pallone d'Oro 2019, assegnato a Lionel Messi da una giuria di 211 giornalisti internazionali che hanno dato la loro preferenza tenendo conto più o meno fedelmente di alcuni criteri. 'Prestazioni individuali e collettive (vittorie), classe (talento e fair play) e carriera del giocatore' sono i tre parametri attraverso i quali gli esperti del settore hanno messo in ordine – scegliendo i top 5 al mondo a loro insindacabile giudizio – i 30 migliori rappresentanti del gioco nella scorsa stagione. Fra polemiche e diserzioni, al Teatro Chatelet di Parigi è stato incoronato per la sesta volta in carriera (record assoluto) il dieci del Barcellona, che ha battuto per un pugno di voti Virgil van Djik e ha staccato nettamente Cristiano Ronaldo, assente annunciato alla cerimonia francese che riuniva il gotha del pallone all'ombra della Torre Eiffel.

Il fuoriclasse portoghese, come noto, ha deciso di rimanere in provincia per godersi le luci della ribalta milanese decisamente più fioche di quelle oltralpe. "Sono orgoglioso di aver vinto questo premio. E' stato il mio primo anno in Italia, un campionato difficile”, ha detto CR7 dopo essere stato insignito del premio di miglior giocatore della scorsa Serie A al Gran Gala del Calcio. Lui che poche settimane prima, parlando a France Football, rivista che guarda caso ha istituito nel '56 il Pallone d'Oro, aveva ammesso di snobbare i campionati nazionali: "Se dipendesse da me, giocherei soltanto le partite importanti, ovvero quelle di Champions League e quelle con la Nazionale. Sono quelle le gare che mi motivano, si gioca per un obiettivo, c’è un ambiente difficile e tanta pressione. Ma chiaramente bisogna essere dei professionisti ogni giorno per rispetto nei confronti del club che ti paga, per questo è necessario dare sempre il meglio".

Insomma, una contraddizione in termini bella e buona, un cortocircuito per il marziano di Funchal atterrato sulla terra per riportare la Vecchia Signora alla gloria europea dopo anni di dittatura in Italia. Situazione singolare perché il periodo storico in cui l'ex Real Madrid non riesce a essere decisivo neanche nella bistrattata Serie A coincide con il fastidioso sorpasso in vetta dell'Inter che ha rimesso matematicamente in discussione il dominio bianconero, instillando i primi dubbi nella testa di Maurizio Sarri, che ha già fatto sapere di non essere preoccupato e di non voler per questo prenotare una visita dallo psichiatra a marzo. Il mese della verità per un club che, dopo essersi messo in tasca il primato nel girone e gli ottavi, insegue la Coppa dalle grandi orecchie da più di vent'anni. E in parallelo lo scudetto, visto che c'è Antonio Conte come primo rivale: la sfida a distanza in questo caso è incominciata ad agosto, con tanto di significati extra offerti dallo status di ex del tecnico leccese. Ingigantito dalla presenza in dirigenza dell'altro fu bianconero Beppe Marotta, che ha ridefinito momentaneamente il suo rapporto con la vittoria nei mesi lombardi: "A Conte – ha detto l'ad dopo l'assemblea in Lega del 2 dicembre - non chiediamo di vincere (un titolo ndr) ma di vincere nel senso di valorizzare le risorse a disposizione". Una dichiarazione da dirigente d'azienda più che da ad di un club di calcio, che parla di valorizzazione del patrimonio tecnico dell'Inter proprio mentre il centrocampo continua a perdere i pezzi e il mercato di gennaio è lontano ed è avaro di opportunità. Ecco perché il doppio impegno Roma-Barcellona in quattro giorni è decisivo in chiave tricolore ma anche a livello di bilancio visto che il pass per le gare a eliminazione diretta potrebbe valere 30 milioni di euro. Non un trofeo ma un incentivo niente male per riparare i difetti numerici della rosa in vista della lunga volata che porta ai traguardi di maggio, quando arriverà la ricompensa che conta davvero per i vincitori.

Nel frattempo, in attesa del verdetto finale, Paratici e Marotta si sfidano sul campo della comunicazione proteggendo i loro cavalli di razza delle loro rispettive scuderie: il Cfo della Juve affilando le unghie per Ronaldo, ostacolato sulla strada verso l'ambito premio individuale dai poteri forti di Real e Barcellona, mentre il Ceo dell'Inter togliendo pressione a Conte che rosica per un pari, figuriamoci se dovesse arrivare al secondo posto in campionato dietro al club che ha più peso politico in Italia (anche se per Pjanic la Juve ha 'nemici anche fuori dal campo'). Giochi di potere all'interno di prospettive ribaltate: l'Inter ha nominato Conte come tecnico per esaltare ogni singolo giocatore e quindi l'intero gruppo, la Juve - di contro – si è svenata per acquistare il migliore di tutti (assieme a Messi) per aggiungere quelle qualità in cui la rosa era stata riconosciuta manchevole. Due modi di vivere il rapporto con il verbo vincere agli antipodi comunque ammessi sul pianeta calcio. Che si ferma davanti a una sfera dorata per 24 ore e per il resto dell'anno segue un moto di rivoluzione attorno alla stella madre dei trofei di squadra. Quella che diffonde una luce naturale che illumina il volto di vincitori e vinti senza possibilità di costruire una teoria del complotto. 

Sezione: Editoriale / Data: Gio 05 dicembre 2019 alle 00:00
Autore: Mattia Zangari / Twitter: @mattia_zangari
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